In Italia (e pertanto nella lingua italiana) con il termine “sicurezza” vengono indicati due distinti concetti che nei paesi anglosassoni sono espressi da parole differenti: security e safety.
Il termine inglese security indica “sicurezza” intesa come protezione da azioni a carattere doloso (con la volontà di compiere un’azione: atti terroristici, aggressioni, furti, ecc).
Il termine safety indica invece “sicurezza” intesa come protezione da azioni a carattere colposo (senza la volontà di compiere un’azione: infortuni e malattie professionali).
Nella nostra rubrica verranno unicamente trattati argomenti riferiti alla safety.
Quando di parla di “Sicurezza sui Luoghi di Lavoro”, ovvero di poter operare senza procurare danni a sé ed agli altri, si pensa, immediatamente, alla “distrazione del lavoratore” o alla “non utilizzazione di mezzi protettivi individuali e particolari (elmetti, occhiali, guanti, scarpe, imbracature di sicurezza, ecc)”, oppure alla “carente protezione delle attrezzature, macchine, impianti, ecc”.
Si visualizza, cioè un “soggetto” che non applica le “norme di legge” nelle sue procedure operative, cioè nella sua attività di “prestatore d’opera”. La maggior parte della normativa vigente in materia di sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro interviene dettando opportune metodologie ed imponendo l’uso di una serie di “oggetti” che svolgono funzione protettiva su singoli fattori di pericolosità (rischi) e che, quindi, regolano l’attività lavorativa. Il precipuo scopo è, cioè, quello di tutelare l’integrità pscico-fisica di “chi lavora”.
Quanto sopra è giustamente e necessariamente indispensabile per ogni attività lavorativa, ma, purtroppo, non “completo” in quanto è soggetto ad infortunio non solo chi “agisce in un ambiente lavorativo”, ma anche chi “si muove ed interagisce nell’ambiente che lo circonda”.
La “Sicurezza” non deve essere solo un coacervo di normative che, oltretutto, spesso comprensibili solamente agli “addetti ai lavori” e….non sempre; ma inteso come “antinfortunistica”; ovvero il “concetto sicurezza” deve essere più ampio nel sociale che è “intorno a noi”.
La qualità della vita ha un ampio “spettro di interpretazioni” che coinvolge tutte le attività dell’uomo, da quelle professionali/lavorative a quelle domestiche e tempo libero; comunque sempre strettamente connesse al proprio bagaglio culturale personale. Molte nostre azioni quotidiane vengono svolte in ambiente domestico/abitativo; e molti “infortuni”, per altro attualmente non opportunamente censiti, avvengono all’interno delle nostre mura domestiche.
L’infortunio “domestico”, estremamente importante quanto quello “lavorativo” presenta gli stessi risvolti ed aspetti dolorosi ed onerosi.
Attualmente è estremamente difficile quantizzare con precisione il fenomeno “infortunistico domestico” in quanto in merito le statistiche non sono attendibili. Si stima, certamente per difetto, che gli “infortuni domestici” ammontino a circa 1 milione l’anno di cui circa 8000/9000 morti e 1000/2000 casi di invalidità permanente.
Senza dubbio anche i circa 3000 morti all’anno nell’ambiente lavorativo, cioè le cosiddette “morti bianche”, rappresentano una cifra che fa riflettere, ma sicuramente anno dopo anno in diminuzione data l’applicazione delle numerose norme legislative in materia e alla sempre più sensibilizzazione delle Imprese.
Le Direttive Europee, infatti, sono principalmente incanalate nell’ambito lavorativo ed il loro obiettivo è quello di giungere ad un “Sistema Gestione Sicurezza sul Lavoro (SGSL)”, come risultato di un’azione sinergica che deve essere realizzata da Datori di Lavori, Lavoratori ed in generale da tutti i “prestatori d’opera” al fine di ridurre al minimo la “nocività” sui luoghi di lavoro.
In definitiva, l’ottica prevalente è ancora quella dell’”uomo centro del sistema impresa” e non quella dell’”uomo centro del sistema vita”; in quanto la normativa vigente in materia di sicurezza è necessaria ma certamente non sufficiente per un efficace azione di sicurezza, che deve, invece, rivolgersi anche ad attività che presentino un qualsiasi, anche minimo, “grado di rischio” non necessariamente lavorativo.
A nostro parere, il metodo più idoneo è quello di una capillare, mirata, ben organizzata opera di “sensibilizzazione alla sicurezza” effettuata mediante azioni di formazione (fin dai banchi di scuola), informazione e divulgazione mediante l’utilizzo di un linguaggio appropriato e tarato rispetto alla “platea” di ascolto e al loro massimo coinvolgimento.
Quanto sopra ha il fine di creare quella che potrebbe essere definita una “Coscienza Antinfortunistica” che permetta a chiunque di percepire le situazioni di pericolo e, a livello quasi “istintivo/epidermico”, valutarle.
Solo in questo modo, anche in assenza o incompleta di norme/leggi (dalla indiscutibile utilità), si potranno acquisire metodologie ed atteggiamenti comportamentali tendenti a portare il “rischio” a valori molto vicini allo zero.