VAJONT
Cronaca di un disastro annunciato
“La verità a 50 anni dalla tragedia”
Scuola Media di Postioma
Classi 2°I e 2°H
Anno scolastico 2013 – 2014
Vajont
Cronaca di un disastro annunciato
Di Altina Bytici
La tragedia del Vajont è, tutt’oggi considerata tra le più grandi catastrofi, italiane e mondiali, causate dall’uomo.
È costata la vita a circa 2000 persone ed ha distrutto il tessuto sociale di interi paesi. I morti nel fondo valle sono stati l’80 % della popolazione.
La responsabilità di tutti questi lutti sono state palleggiate tra diverse istituzioni. Le responsabilità rimangono però la cupidigia, l’avidità e il potere che associate al denaro, ancor oggi purtroppo, stanno alla base della corruzione e dell’imbroglio .
Il 9 ottobre 1963 alle ore 22.39, una frana di 260 milioni di metri cubi di roccia compatta piomba sul lago del bacino idrico della diga del Vajont provocando una serie di onde che si innalzano fino a 250 metri dalla superficie del lago e in parte precipitano sul fondo valle alla velocità di oltre 100 km orari .
La massa d’acqua è preceduta da un onda d’urto d’aria che provoca le prime distruzioni. Superata la stretta gola, tale massa d’acqua si allarga per oltre 1 km si abbassa dando origine ad un onda d’acqua che raggiunge un altezza di 60-70 metri.
La violenza dell’energia scaricata sugli abitati della valle provoca la loro cancellazione radendo al suolo tutto ciò che incontra .
Questa catastrofe non fu una catastrofe naturale, come fino ad ora hanno voluto far credere, imprevedibile ed incontrollabile, ma fu un vero e proprio eccidio che ebbe luogo a causa del cinismo e della disonestà di persone senza scrupoli che omisero informazioni importanti nelle relazioni tecniche .
I luoghi
La valle del Vajont è abitata da più di 1000 anni e gli abitati di Erto e di Casso si sono sviluppati sul fianco opposto a quello del monte Toc. La toponomastica ( i nomi del luogo ) è significativa, infatti, nel dialetto locale “Patoc” significa marcio-sfatto e in ladino la parola “Vajont” significa va giù.
Queste premesse, viste con il senno di poi, sembrano essere segnali premonitori circa la struttura geologica dei luoghi e paiono presagire la tragedia del 1963.
Nel luglio del 1959 , due geologi , Franco Giudici ed Edoardo Semenza (figlio del progettista della diga ) sintetizzarono con queste parole la conclusione delle indaginigeologiche fatte sul versante del monte Toc:
“sotto il monte Toc esiste un enorme massa in movimento dalla quale si possono staccare frane a ripetizione soprattutto riempiendo e svuotando il bacino del Vajont”.
Nel febbraio del 1961, Leopold Müller, geologo e grande luminare, fondatore della scuola di geologia di Salisburgo, sintetizzò con queste parole la sua relazione geologica relativa al versante del monte Toc:
“….non possono esistere dubbi su questa profonda giacitura del piano di slittamento. Il volume della massa di frana deve quindi essere considerato di circa 200 milioni di metri cubi. La sola misura di sicurezza possibile è l’abbandono del progetto”.
Le relazioni di E. Semenza, Giudici e Müller concordano nella sostanza e se a Edoardo Semenza poteva essere contrastata la giovane età e l’eventuale poca esperienza, questo non lo si poteva certamente dire per Müller .
Tutti gli studi di Semenza e di Müller si confermavano reciprocamente anche se per Müller non esisteva la paleo frana ma una superficie di frana recente.
Dal rapporto sismografico della SADE del marzo 1962:
“dal 15 al 28 febbraio 1962 si sono verificate 5 scosse di terremoto di variabile intensità”.
Nel luglio del 1962 il professor Augusto Ghetti, titolare del Istituto di idraulica dell’università di Padova, al termine degli studi fatti sui plastici in scala presso il Centro Modelli Idraulici di Nove, concludeva la sua relazione tecnica nel seguente modo:
“La caduta di una frana di 200 milioni di metri cubi potrebbe provocare conseguenze dannose, accentuate gradatamente fino a divenire manifestamente impressionanti, al massimo invaso, anche per la zona a valle della diga”.
La storia
Il progetto della diga nasce nel lontano 1929. L’ing.Carlo Semenza (padre di Edoardo) ne fu l’ideatore ed il progettista.
Era un profondo conoscitore delle strutture geologiche che, data la loro morfologia (forma) erano idonee alla realizzazione di opere di questo tipo.
All’epoca la diga del Vajont era la più alta ed innovativa del mondo. La sua forma e la sua struttura erano quelle tecnologicamente più avanzate. I primi sopralluoghi per la valutazione dell’idoneità del sito vennero fatti in compagnia del geologo Giorgio Dal Piaz, docente preso l’università di Padova.
Nel 1940 il progetto era già pronto.
Le vicissitudini storiche dell’Italia e al seconda guerra mondiale portarono nel 1943, dopo l’8 settembre, approfittando della caduta del fascismo e del caos politico, la SADE (Società Adriatica Di Elettricità) ad ottenere l’approvazione del progetto in modo illegale.
La Quarta Sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici era presente in modo estremamente limitato e al voto di approvazione parteciparono solo 13 dei 34 componenti.
La SADE tra il 1948 e il 1955 procedette all’esproprio dei terreni interessati dall’invaso. Nel 1956 viene aperto il cantiere e il 1° aprile 1957 viene approvata una modifica del progetto in corso all’opera che innalzava l’altezza della diga a 261 metri di quota (la diga subì una serie di modifiche progettuali che la fecero variare, aumentandone l’altezza fino alle dimensioni definitive) il 1° aprile 1958 la SADE nomina la Commissione di Collaudo.
Tale commissione non svolgerà mai effettivamente il proprio lavoro in quanto i “controllori” erano stipendiati dai “controllati”.
Il 22 marzo 1959, la domenica delle Palme (la settimana prima di Pasqua) una frana precipitò nel bacino della diga di Pontesei. Tale diga era uno sbarramento costruito nella valle della torrente Maè sul lato opposto della valle del Piave.
La valle del Maè era molto simile alla valle del Vajont.
Anche la diga di Pontesei era stata progettata da Carlo Semenza. L’onda provocata dalla frana tracimò provocando la morte all’anziano invalido custode Arcangelo Tiziani. Il corpo di Arcangelo Tiziani non fu mai ritrovato.
Questo fatto congelò l’atmosfera di ottimismo nel cantiere del Vajont.
La preoccupazione che un evento simile potesse accadere anche nel Vajont spinse l’ing. Carlo Semenza a chiedere un parere tecnico al proprio figlio Edoardo (geologo). La relazione di Edoardo Semenza (luglio 1959) fatta sulla base di ricognizioni e studi personali, contrastava con quanto dichiarato da Dal Piaz in precedenza.
Edoardo ipotizzava fratture profonde 500-600 metri e non 10-20 metri come dichiarato da Dal Piaz .
Dai suoi rilevamenti aveva notato i segni di una enorme paleo frana che aveva ostruito il paleo corso del torrente Vajont. L’attuale valle del Vajont altro non era che l’erosione della paleofrana avvenuta dopo il periodo glaciale.
Tali fratture avrebbero movimentato un enorme massa rocciosa ed erano assolutamente in accordo con le ipotesi di Müller che era stato interpellato per analizzare la realizzabilità del progetto.
Muller dopo aver eseguito sondaggi stratigrafici sia sul Toc sia sul versante di Erto e Casso aveva espresso forti dubbi.
Successivamente fece di più, andò a disegnare sulla carta del monte Toc la fenditura a forma di M che si verificherà in seguito essere la nicchia di distacco della frana.
Tutte queste indicazioni non furono sufficienti a bloccare i lavori e tutte le raccomandazioni vennero puntualmente ignorate.
Giorgio Dal Piaz, titolare della cattedra di geologia all’università di Padova, confutava sia la tesi di Müller sia quella di E. Semenza.
Venne chiesto a Pietro Caloi (matematico e geosismico) di verificare attraverso sondaggi sismici la struttura geologica della zona.
Dai risultati della prima campagna di analisi emersero valori compatibili con quanto dichiarato da Dal Piaz.
Caloi aveva però intuito successivamente con una seconda campagna di indagini che qualcosa non andava e si era opposto ad un innalzamento del lago sopra quota 650 metri sul livello del mare.
Aveva intuito (o visto) che la frana, profonda o no, era li e più l’acqua saliva più aumentavano le probabilità che la base argillosa avrebbe potuto innescare lo slittamento a valle del versante.
Disse perciò che: “ … non bisogna bagnare i piedi al gigante … “.
In altre parole aveva capito che le ipotesi di Edoardo Semenza e di Giudici o quella di Müller erano fondate.
Una volta riempito il bacino non lo si sarebbe più potuto svuotare.
La spinta idrostatica dell’acqua sarebbe stata indispensabile a mantenere in equilibrio il monoblocco di pietra.
Probabilmente questo suo pensiero non lo espresse a nessuno e se solo lo fece, lo fece in modo non ufficiale.
In ogni caso di questo non ne venne tenuto conto e non vennero presi provvedimenti.
Il 1960 era il termine ultimo per la lavorazione della diga. Non rispettare questa data voleva dire perdere contributi statali. Questo aspetto, puramente economico, fece accelerare tutte le procedure di collaudo.
Segnali premonitori
4 novembre 1960
Con il precedere dell’invaso si innescano alcuni smottamenti definiti minori. Uno di questi (800 mila metri cubi) provocò un onda di 2 metri che divenne di 10 sul muro della diga. Fortunatamente non ci fu tracimazione.
Nello stesso periodo in località Erto e Casso si susseguirono scosse di terremoto e comparvero intorbidimenti dell’acqua del bacino. Una replica di quanto avvenuto a Pontesei l’anno precedente.
TINA MERLIN
Giornalista
Di Giorgia Trentin 2H
Tina Merlin era una giornalista della zona, scriveva sul quotidiano “l’Unità” che era l’organo di stampa dell’allora Partito Comunista Italiano. Come giornalista cercò di informarsi e di informare sia dal punto di vista tecnico sia dal
punto di vista politico-amministrativo.
Nel suo lavoro di indagine si scontrò con le parti più nascoste della politica e della finanza.
Venne denunciata e subì un processo dal quale venne assolta grazie alla sua tenacia ed alla correttezza delle informazioni da lei trasmesse.
Di seguito si riporta una parte di un suo articolo:
“…Si era dunque nel giusto quando, raccogliendo le preoccupazioni della popolazione si denunciava l’esistenza di un sicuro pericolo costituito dalla formazione del lago. E il pericolo diventa sempre più inconvente. Sul luogo della frana il terreno continua a cadere si sente un impressionante rumore di terra e sassi che continuano a precipitare.
Le larghe fenditure sul terreno che abbracciano una superficie di interi chilometri non possono rendere certo tranquilli i comitati.”
I COMITATI
Fin dal primo arrivo della SADE sul monte Toc, gli abitanti della zona reclamarono il loro diritto della territorialità in difesa delle loro proprietà che, anche se piccole, erano le totalità dei loro averi.
Iniziarono così lotte contro gli espropri del terreno e si susseguivano le denuncie di errori ed irregolarità del progetto.
Gli articoli di Tina Merlin erano visti dalla SADE come atti che portavano alla sobillazione del popolo.
Si formarono così 2 comitati:
1) Comitato per la difesa del comune di Erto.
2) Consorzio civile per la rinascita della valle ertana.
Le richieste di questi comitati e le loro denuncie non furono mai ascoltate. Tina Merlin diede voce a questi cittadini riportando le loro denuncie sulle pagine del suo giornale.
Questo le fruttò una denuncia ad opera della SADE. Fu processata per la divulgazione di “Notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”(articoli 656 e 657 codice penale ).
Questa accusa le fu inflitta a causa dell’articolo: “La SADE spadroneggia ma i montanari si difendono”
Articolo pubblicato sull’Unità del 5 Maggio 1959.
Il tribunale di Milano assolse Tina Merlin anche grazie al contributo dato in aula, dagli abitanti della valle.
ASPETTI TECNICI
l progetto di Carlo Semenza era ambizioso, innovativo e, dal punto di vista ingegneristico-strutturale, molto efficace.
La diga non ha solo retto all’onda d’urto dell’acqua ma è riuscita a sopportare anche l’impatto dei materiali di frana.
Non si può certo dire che la diga non sia stata costruita a regola d’arte e non si può certo dire che il consolidamento delle sue spalle non sia stato efficace.
L’unico problema stava nel fatto che il serbatoio era stato costruito nel luogo sbagliato.
Luogo assolutamente inidoneo posizionato immediatamente a valle di una enorme frana preistorica che, nè Giorgio Dal Piaz, nè gli altri suoi illustri colleghi, erano riusciti a vedere.
Solamente il giovane geologo Edoardo Semenza ne aveva prima intuito la presenza e poi, anche grazie alle indicazioni di Müller ne aveva identificato la struttura e la geometria.
Müller non riconobbe mai la presenza della “Paleo Frana” e non riconobbe mai, come indicato da Edoardo Semenza, la presenza di orizzonti argillosi sul piano di svolgimento.
Per Müller la roccia era in posto e lo scorrimento doveva avvenire roccia contro roccia.
Questa diversità di opinioni porterà a far illudere che il movimento franoso potesse essere controllato.
La differenza sostanziale tra Edoardo Semenza e Müller stava nel fatto che Müller non riconosceva e accettava l’ipeotesi della paleo frana.
Per Müller la frana era attuale lo scorrimento era roccia su roccia, pertanto lento.
Per Müller i blocchi dovevano essere due, che si separavano al vertice della grande M. I tempi di distacco sarebbero stati diversi da un blocco all’altro.
L’ipotesi della non esistenza della “paleofrana” venne sostenuta anche dopo il 1963.
Grazie ai lavori di due geologi americani (J.Hendron, D.Patton) che dovendo studiare la fattibilità di una grande diga sul Columbia River (fiume che separa gli USA dal Canada e dove era stata scoperta l’enorme frana di Dowinie) hanno
voluto capire le cause della frana del Vajont, per poter interpretare e verificare i rischi del lavoro in America. I due geologi hanno seguito con estrema attenzione gli studi di Edoardo Semenza e gli hanno chiesto di collaborare con loro.
Per 40 anni Semenza ha cercato di finanziare la ricerca per lo studio della zona ma né il Ministero, né l’Università lo hanno ascoltato.
È solo con il finanziamento americano che oggi possiamo capire in dettaglio quanto è accaduto il 9 ottobre 1963.
Nel 1985 vengono resi pubblici questi studi fatti in collaborazione con gli americani che, nonostante le nuove e più tecnologiche metodologie di indagine, confermarono nella sostanza il lavoro di Edoardo Semenza del 1959.
Sulla valle del Vajont esistava il “il paleo torrente Vajont” che aveva eroso il versante del Toc.
Questa erosione aveva generato l’instabilità che aveva causato la paleo frana.
Con la fine del periodo glaciale, durante il disgelo, il “Nuovo Torrente Vajont” forma il suo alveo erodendo la paleo frana e formando la nuova gola del Vajont.
Con i rilevamenti del 1959 Edoardo Semenza individua il “Paleo Alveo” del Vajont e la superficie di scorrimento della paleo frana.
Inizialmente sbaglia ad interpretare la superficie di distacco ma poi, sulla base della indicazioni di Müller, ne ipotizza con precisione la geometria.
“Alla base dello scorrimento della paleo frana non c’é roccia in posto ma l’orizzonte ricco d’argilla frutto della disgregazione delle rocce dovute al movimento preistorico”.
Con l’innalzamento del livello del lago questo orrizzonte si è saturato d’acqua e i ripetuti riempimenti e svuotamenti del bacino ne hanno causato una brusca diminuzione della resistenza meccanica.
Nessuno pensava che la frana potesse raggiungere quelle velocità.
Lo scorrimento d’acqua all’interno di questi orizzonti argillosi ha provocato una storta di stress che ha portato alla brusca rottura il 9 Ottobre del 1963.
Gli intorbidimenti dell’acqua del lago probabilmente erano già indicatori di modificazioni in atto all’interno di questi strati rocciosi disgregati.
Carlo Semenza e Giorgio Dal Piaz non conobbero ne gloria ne disonore poichè morirono a pochi mesi l’uno dall’altro alla fine del 1961.
Alla morte di Carlo Semenza venne anche escluso il figlio Edoardo dall’incarico di consulente.
Nel Gennaio del 1962 subentrò a Carlo Semenza il suo vice Ing. Alberico Biadene, dirigente della SADE, uomo arrogante e senza scrupoli direttore del “Servizio Costuzione Idrauliche” a Venezia.
Era già intervenuto nell’accultamento di documenti certificati l’instabilità del Monte Toc.
Aveva anche taciuto i rapporti sismografici della valle.
Nell’Aprile del 1962 subentra anche l’Ing. Mario Pancini. Persona sensibile e corretta, tanto da morire suicida nel 1968 agli inizi del processo.
Più passa il tempo più si evidenzia la grande frattura a forma di M sul Monte Toc. Le dimensioni indicate da Müller sono di circa 2,5 km di larghezza e 700 m di dislivello.
Il 14 Marzo 1963 ci fu il passaggio della SADE alla neonata ENEL.
In Aprile ebbe luogo la terza e ultima prova di invaso che doveva dimostrare e garantire il perfetto funzinamento perchè la centale doveva entrare subito in produzione.
“Lo scavo della galleria di Baypas doveva garantire il collegamento idrico anche dopo una eventuale frana che avesse diviso in due il lago”.
Probabilmente pensavano di poter continuare la produzione di energia eletrica anche dopo un eventuale frana che avrebbe diviso il lago in due parti.
Anche se tale frana avrebbe potuto originare oltre un centinaio di vittime, queste venivano considerate, con un termine di recente introduzione, “danni collaterali” .
La galleria di Bypas, che doveva servire a collegare i due laghi residui post frana, era costata all’epoca un miliardo di lire e pertanto si doveva rendere produttivo l’impianto il prima possibile.
Queste considerazioni, puramente economiche, spinsero l’Ing. Biadene a forzare i tempi e a spingere sulle quote di invaso.
Questo fu fatale.
Biadene diede ordine di invasare fino a quota 715 senza tenere minimamente in considrazione sia le raccomandazioni di Caloi sia quelle di Müller.
Questa quota non fu mai raggiunta.
A Settembre, arrivati a quota 710 si accentuarono una serie di fenomeni che dovevano far pensare al rischio imminente e alla messa in sicurezza della popolazione.
Sulla base di quello che era avvenuto nel 1960 (di 800 000m cubi ) si doveva far iniziare l’opera di evacuazione della popolazione.
Cronaca della vigilia del disastro
Di Irene Cecchini 2I
Domenica 6 ottobre 1963
L’Ingegner Beghelli è il funzionario del Genio Civile di Belluno, è tra i primi ha svolgere l’incarico di assistente governativo al cantiere della diga.
Passando per la strada che portava in località Pineda, fornisce una relazione precisa e dettagliata di quanto stava accadendo.
Riportiamo una parte significativa del suo resoconto:
“… La sede stradale era completamente sconvolta, fessurata in più punti, talvolta traslata rispetto a sede originale, con avvallamenti tali da compromettere il transito, al punto che sembrava di andare su un campo.”
Lunedì 7 ottobre 1963
Le proteste del Comune di Erto raggiungono il Genio Civile di Udine.
L’ingegnere capo risponde alla prefettura basandosi sulla relazione geologica fatta da Giorgio Dal Piaz nel 1937 che dichiara che la conca rocciosa sulla quale sorge Erto è sicuramente solida e che:
“…quanto sopra (…) è sufficiente per togliere alla popolazione di Erto ogni preoccupazione”.
Gli eventi che si susseguono iniziarono a preoccupare gli abitanti.
Il maestro Martinelli chiede a Corona Pietro Matteo di fare una perlustrazione sul monte Toc.
In questa perlustrazione Corona Pietro nota notevoli cedimenti lungo la strada e, in prossimità della frana, nota sassi che rotolano nel lago.
Il movimento franoso viene descritto nel seguente modo:
“…boati con conseguenti tremolii (…) colpi sordi profondi come di qualsiasi che crepasse e contemporaneamente il terreno scosso in senso verticale.”
Qualche ora più tardi, in compagnia dell’assistente De Prà, su incarico del geometra Rossi, fu perlustrata tutta la zona della frana.
Si evidenziavano numerose fenditure di varia dimensione che si producevano di ora in ora.
Fu solamente a seguito di questo controllo che venne presa la decisione dello sgombero degli abitati sul versante del monte Toc.
La stessa sera iniziò il piano di evacuazione delle casere stagionali.
L’ordine fu dato dall’assistente Corona Marco, limitato alla zona del Toc ad esclusione delle frazioni di Pineda, Prada e Liron.
La motivazione data era la seguente: “… per precauzione …”.
Martedì 8 ottobre 1963
L’ingegner Caruso parla all’ingegner Violin, capo del Genio Civile, dicendogli che l’accelerarsi degli spostamenti della frana non sono eccessivamente preoccupanti.
Riferisce che un esperimento ha dimostrato che un’eventuale onda potrebbe essere contenuta all’interno della diga ed uno svaso comprometterebbe la stabilità della frana…
“Non c’è niente di allarmante (…) la pregherei di non spargere voci allarmistiche perchè per quello che c’è di pericoloso abbiamo già provveduto.”
Durante la rilevazione compiuta con i geometri in località Pineda, Corona notò che la frana si muoveva a vista d’occhio.
I tecnici addetti alla misurazione erano fortemente preoccupati.
Il terreno continuava ad abbassarsi senza sosta.
Ogni minima variazione del livello dell’acqua innesca movimenti sismici ed il terrore inizia a diffondersi tra tutti e paralizza i vertici della SADE.
Se l’acqua scende la frana cade ma se cade a questo livello sicuramente l’onda tracima.
Solo ora l’ingegner Biadene prende coscienza del pericolo reale, ma ora è troppo tardi.
Dato il precipitare degli eventi chiese un’ordinanza per lo sgombero della zona.
Mercoledì 9 ottobre 1963
L’ingegner Biadene scrive una lettera all’ing. Pancini che si trova in vacanza a New York.
Gli chiede di rientrare anticipatamente a Venezia e descrive in modo sommario ma preoccupato gli eventi degli ultimi giorni.
La lettera si conclude con un fatidico: “[…] che Iddio ce la mandi buona”.
Ore 22:39
Dal Toc si stacca una frana con un fronte di oltre 2 Km. 260 milioni di m3 di roccia e terra si precipitano a grande velocità nel lago.
La frana arriva nell’invaso generando una forte scossa sismica e riempendo il bacino artificiale.
L’impatto del pezzo di montagna franato è trasversale rispetto al lago e questo origina 3 onde:
– una frontale che spinge l’acqua sul versante di Erto e Casso;
– una verso monte;
– una verso valle.
Quest’ultima sarà quella che darà origine alla tragedia di Longarone.
Questa massa d’acqua è di circa 50 milioni di m3, la metà scavalca la diga e precipitano a valle.
La diga resiste all’impatto e rimane pressoché intatta. Viene spazzata via la strada appoggiata sul coronamento e viene distrutta la palazzina che ospitava la cabina di comando.
L’altezza massima raggiunta dalle onde è di circa 250 metri rispetto alla superficie del lago. Dove arriva l’acqua dilava tutto strappa alberi dal terreno, riesce addirittura ad erodere la roccia.
I 25 milioni di m3 di acqua che precipitano a valle si incanalano lungo la gola del Vajont e, sfociando sulla valle del Piave, si allargano a ventaglio con un fronte di oltre un chilometro per un altezza della massa d’acqua di circa 60 – 70 metri.
Si salvano solo le case al nord del Municipio che non vengono lambite da quest’onda.
Tutto ciò che è toccato non viene distrutto, viene cancellato. Dopo questo passaggio non rimangono neanche le macerie, come un enorme colpo di spugna viene cancellata un’intera comunità.
Delle case vengono eliminate anche le fondamenta e il paese lo troviamo come un cumulo di detriti accatastati sulle pile e sotto gli archi dei ponti a valle.
Molti corpi saranno recuperati a decine e decine di chilometri di distanza. Molti altri non saranno mai trovati e di essi esiste solamente il nome su una tomba.
Non è certo neanche il numero delle vittime, ciò che è certo è che scompare l’80% di un’intera comunità.
Ciò che l’acqua lascia alle proprie spalle è un desolante paesaggio “lunare” privo di alberi e di qualsiasi forma d vita.
IL PROCESSO
Il 20 febbraio 1968 il giudice istruttore di Belluno, Dr. Mario Fabbri, deposita la sentenza del procedimento penale contro:
1. Alberico Biadene;
2. Mario Pancini;
3. Pietro Frosini;
4. Francesco Sensidoni;
5. Curzio Battini;
6. Francesco Penta;
7. Luigi Greco;
8. Almo Violin;
9. Dino Tonini;
10. Roberto Marin;
11. Augusto Ghetti.
Penta e Greco muoiono nel frattempo di morte naturale, mentre Mario Pancini si toglie la vita il 28 novembre 1968.
Il processo di I° grado si tiene a l’Aquila e si conclude il 17 dicembre 1969.
L’accusa chiede 21 anni per tutti gli imputati eccetto che per Violin per il quale ne vengono chiesti 9.
L’imputazione è disastro colposo di frana e di inondazione con l’aggravante della prevedibilità dell’evento e di omicidio colposo plurimo aggravato.
Alberico Biadene, Curzio Battini e Almo Violin vengono condannati a 6 anni di reclusione, di cui 2 condonati, per omicidio colposo. Colpevoli quindi di non aver avvertito e di non aver messo in moto lo sgombero.
Assolti tutti gli altri imputati.
Non viene riconosciuta dalla corte la prevedibilità della frana.
Dal 15 al 25 marzo 1971 si svolge a Roma il processo di Cassazione dove viene confermato il verdetto del processo di II° grado che aveva visto condannati Biadene e Sensidoni. A Biadene viene ridotta la pena e deve scontare 2 anni; per Sensidoni la pena è di 10 mesi.
Nel 1997 la Montedison, che aveva acquisito la SADE, fu condannato a risarcire i comuni colpiti dalla catastrofe.
L’intera vicenda si concluse nel 2000 con un accordo di ripartizione dei risarcimenti tra ENEL, Montedison e Stato Italiano in parti uguali.
La verità 50 anno dopo
9 ottobre 1963 – 9 ottobre 2013
Di Eleonora Buzuk 2I e Trentin Giorgia
A 50 anni dalla catastrofe emergono le responsabilità sia in relazione ai lutti sia in relazione all’impunità dei responsabili.
“….Merito del geologo Alvaro Valdinucci la ricostruzione attenta ed oggettiva di tutti gli eventi e delle responsabilità.
Già nel 1993, a 30 anni di distanza dai fatti, aveva raccolto tutta la documentazione con la capacità dello storico che si avvale della conoscenza e con l’autorevolezza del funzionario integerrimo del servizio Geologico di Stato.
I suoi scritti sono stati deliberatamente rimandati al mittente da chi avrebbe potuto e dovuto diffonderli per un obbligo morale nei confronti della ricerca della verità per tutte le vittime del Vajont e per tutte quelle verità che non sono ancora emerse, legate a fatti tragici ma sottaciute o rese segrete per motivi di interesse generale e di sicurezza del nostro paese……..
……Grazie alla perseveranza del Geologo Riccardo Massimiliano Menotti, ricercatore del C. N. R. che ha collaborato con Valdinucci.
Questi scritti sono arrivati al Consiglio Nazionale dei Geologi che, ne ha deciso la pubblicazione.
Le verità possono far male ma alleggeriscono il dolore di chi ha pagato il prezzo altissimo di aver perso i propri cari, le proprie cose e come nel caso del Vajont, la propria identità e le proprie sicurezze.
…………A loro il Consiglio Nazionale dei Geologi, con il proprio patrocinio dedica la pubblicazione”
(Dr. Geologo Gianvito Graziano Presidente Consiglio Nazionale dei Geologi).
A conclusione al nostro percorso sulla frana del Vajont.
Mercoledì 9ottobre 2013.
Analizziamo quanto emerso dalla pubblicazione edita dal Consiglio Nazionale dei
Geologi da Alvaro Valdinucci e Riccardo Massimiliano Menotti:
9 ottobre 1963
Che iddio ce la mandi buona .
La frana del Vajont
Memoria storica di una catastrofe prevedibile .
Il libro era già pronto nel 1993 per il trentennale della frana del Vajont nessuno volle pubblicarlo, in quanto dal libro emergono le verità e le responsabilità.
I geologi italiani più illustri si sono schierati a difesa della SADE (Società Adriatica Di Elettricità) e grazie alle loro dichiarazioni il tribunale de L’Aquila ha assolto la maggior parte degli imputati (la quasi totalità) ed ha ridotto sensibilmente le pene residue.
Tutto questo è avvenuto non per volontà dei magistrati ma perché il disastro è stato considerato come una fatalità legata ad eventi naturali imprevedibili.
Dal libro:
“Sono passati 50 anni dalla gigantesca frana del Vajont, un fenomeno prevedibile al di la di ogni dubbio ma ignorato fino all’ultimo momento dalla SADE …
Determinata a ricavare ad ogni costo il massimo profitto e purtroppo ci sono stati anche geologi magari docenti o ex docenti universitari che si sono vantati di aver difeso sia nei tribunali che nei confronti dell’opinione pubblica con risultati del disastro che provocò quasi 2000 vittime e la devastazione di alcuni centri abitati.
In questa schiera di accusatori della “Natura” emerge incomprensibilmente Ardito Desio che il 17 settembre 1986 in apertura del convegno sulla frana del Vajont del 63 nel suo brevissimo intervento ma pesantissimo nella sostanza arriva a dichiarare:…
”…..Vi posso dire candidamente che grazie al nostro intervento molto positivo, tecnico ma anche umano, più di uno degli imputati si è salvato. Questo devo dirlo la tecnica come in questo caso può fare delle dimostrazioni che, in altre maniere, anche con i migliori avvocati, non si sarebbe in grado di fare ……”
Il libro continua:
“…….il famoso professore, si compiace di ricordare il suo intervento in difesa degli imputati e non si esita a definire molto obbiettivo: tecnico e umano. Era consuetudine all’epoca fare in modo che le elaborazioni scientifiche si dovessero adattare ai progetti della SADE e non viceversa.”
Di seguito riportiamo parte di una lettera che il vecchio Giorgio Dal Piaz scrive a Carlo Semenza il 6 febbraio 1957.
Padova 6-2 1952
Caro ingegnere,
ho tentato di stendere la dichiarazione per l’alto Vajont, ma le confesso sinceramente che m’è riuscita bene e non mi soddisfa abbia la cortesia di mandarmi il testo di quella ch’ Ella mi ha esposto a voce che mi pareva molto felice.
La prego inoltre di dirmi se devo mettere l’ intestazione dell’ ente alla quale deve essere indirizzata.
Appena avrò la sua edizione la farò dattilografare e le farò immediato invio.
Scusi il disturbo e con tanti ringraziamenti riceva i miei cordiali saluti.
A lei.
Giorgio Dal Piaz ” .
Dalla lettera risulta evidente la sudditanza di Dal Piaz che chiede che sia Carlo Semenza a scrivergli la relazione geologica.
In pratica il geologo “Consulente “, pagato per questo, chiede al committente di scrivere il testo della relazione che serve al committente.
Carlo Semenza inviò a Dal Piaz prontamente il testo della relazione.
A tal proposito risulta curiosa una lettera di impressionante significato che Carlo Semenza scrive al figlio Edoardo in merito alle indagini geologiche che stava svolgendo per la SADE .
Riportiamo parte della lettera.
“… Riteniamo indispensabile che tu mostri preventivamente la relazione al professore Dal Piaz al quale preannuncio la cosa con lettera che ti allego in copia.
Anche se dovrai a seguito del colloquio attenuare qualche tua affermazione non cascherà il mondo…”
È impressionante dover pensare che gli studi meticolosi e dettagliati di Franco Giudici e di Edoardo Semenza debbano essere valutati da Giorgio dal Piaz!
Con la frana del 4 novembre 1960 si apre la grande fenditura ad M che sale fino a quota 1360 m.s.l.m.
È proprio in questa fase che Franco Giudici ed Edoardo Semenza identificano la geometria precisa della paleo frana che prima avevano interpretato di dimensioni minori.
Nonostante Müller non creda alla paleo frana, i suoi rapporti alla SADE sono sempre più allarmistici.
La seconda campagna di sondaggi condotta da Caloi nel 1960 smentisce i valori trovati nella prima del ’59.
Come questa tecnica di indagine inizia a dare risultati “spiacevoli” per la SADE, viene abbandonata senza ulteriori più estese applicazioni (come al solito sono le indagini che si devono adattare al progetto e non il contrario).
Se un’indagine preannuncia probabili o possibili problemi futuri viene “sapientemente” abbandonata.
I modelli idraulici e gli esperimenti fatti da Ghetti al centro di Nove vengono sempre fatti tarare solo per le condizioni più favorevoli ed (almeno ufficialmente) non vengono effettuate sperimentazioni nelle situazioni più critiche come indicato anche da Edoardo Semenza (che indicava di far precipitare sul lago blocchi di cemento e non materiale
sciolto).
Anche se la frana di Pontesei ha avuto un tempo di caduta estremamente rapido, per il Vajont non viene tenuta in considerazione questa eventualità.
Augusto Ghetti trae così l’infausta conclusione dalla sua relazione del 3 luglio del 1962:
“….già la quota di 700 m s.l.m. Può considerarsi di assoluta sicurezza nei riguardi del più catastrofico evento di frana”.
Questa certezza non convince nessuno e la relazione non viene comunque comunicata alla Commissione di Collaudo, né al Servizio Dighe né al Genio Civile.
Dopo il disastro vennero fatte fare delle prove sperimentali presso il laboratorio di Geologia Applicata di Nancy Francia, diretto da M. Roubault, con piastre rigide sovrapposte ben più somiglianti alla situazione reale della frana.
Roubault così scrive delle sperimentazioni del centro di Nove:
“…un esperimento di frana su modello da laboratorio, dal quale vennero tratte conclusioni <<rassicuranti>>, ma che non aveva molto significato…..”.
Il deputato Giovanni Leone, che all’epoca del disastro era Presidente del Consiglio ed aveva rassicurato la popolazione dicendo che i responsabili sarebbero stati assicurati alla giustizia, accetta di far parte del Collegio di Difesa della SADE e nella memoria difensiva scrive:
“Gli imputati sono persone ineccepibili sotto ogni aspetto e la loro colpa sta nel non aver avuto nell’ora suprema l’appercezione e la riflessione, il lampo illuminante dell’imminente pericolo……..Ciò che ha ucciso non è la frana, cioè la prevedibile cedevolezza dell’area scelta e non tenuta sufficientemente sotto controllo, ma soltanto l’innondazione percui l’evento non può essere addebitato all’agente, cioè alla SDAE – ENEL”.
Questo avvocato diventerà il futuro Presidente della Repubblica…..
CONCLUSIONI
Di Rizzato Giovanni 2H
In conclusione abiamo capito che il progetto della diga era all’avanguardia e avvenieristico.
La costruzione della diga è avvenuta a regola d’arte e i calcoli stutturali fatti da Carlo Semenza erano corretti e ben dimensionati. Nonostante il tremendo impatto la diga ha resitito in modo incredibile riportando solo minimi danni.
Se la si osserva ancor oggi rimaniamo stupiti dalla sua struttura esile che però si è dimostrata assolutamenta resistente. La diga è un’elevatissia opera di ingegneria costruita in modo eccellente ma nel posto sbaglato.
Questo è un classico esempio in cui l’ingegneria non ha tenuto conto dell’ambiente in cui l’opera era inserita.
Ancor oggi, com, Willy il Coyote, diamo piu peso all’ingegneria delle strutture rispetto a quello che si da al luogo in cui esse vengono inserite.
La storia ci ha insegnato che i più grandi disastri sono sempre stati causati dalle caratteristiche geografiche e strutturali dalle aree in cui le grandi opere sono state realizzate.
Troppo spesso ci siamo trovati davanti a giustificazioni che trasferiscono alla ”natura” le cause dei nostri errori.
Ancora oggi non si investe per la conoscienza del territrio.
Edoardo Semenza per 40 anni ha chiesto di finanziare la ricerca (per poter comprendere fin nei minimi aspetti la struttura geologica e le cause dettagliate della frana del Vajont) …………. progetti che l’Italia non ha mai finanziato.
É ridicolo constatare che una ricerca di qusto tipo sia stata finanziata da una Universtà americana ed Edoardo Semenza abba collaborato con i geologi J.Hendron e D.Patton che, dovendo studiare la fattibilità di una grande diga su Culumbia River tra Canada e USA (dove è stata scoperta l’enorme frana di Downie), hanno voluto capire le cause
della frana del Vajont attraverso ricerche sul posto e gli studi di Edoardo Semenza e Franco Giudici.
Nel 1985 la conclusione di questo studio venne ovviamente smentito da molti geologi italiani.
Mentre la ricerca italiana rimaneva bloccata e Ardito Desio ancora il 17 settembre1986 al convegno sulla frana del Vayont si vantava di aver salvato gli imputati del processo dell’Aquila.
”…vi posso dire candidamente che grazie al nostro intervento molto obbiettivo tecnico ma anche umano, più di uno degli imputoati si è salvato… la tecnica, come in questo caso può fare delle dimostrazioni che in altre maniere, anche con i migliori avvocati non si sarebbe in grado di fare…”
Ancor oggi troppo spesso gli studi legati alla determinazione, prevenzione e previsione dei rischi geologico-ambientali sono considerati degli elementi che bloccano o riducono fortemente lo sviluppo del progresso e dell’economia.
Pultroppo ciò che viene spacciato come progresso o sviluppo economico il più delle volte si è trasformato in lutto, miseria e disperazione.
Come abbiamo visto la rincorsa all’abusivismo edilizio, alle scorciatorie tecniche e alla non conoscienza degli studi geologico-ambientali hanno portato ad una situazione di elevata criticità, per il nostro territorio, sia dal punto di vista economico sia ambientale sia cuturale.
La non considerazione dei principi etici su cui si basa un equilibrato sviluppo economico, ha sempre portato nel medio e lungo periodo, all’arricchimento di pochi e all’impoverimento di molti.
È obbligo di ogni cittadino vigilare con ogni mezzo ed in tutti modi per il rispetto dei principi etici e morali su cui si fonda qualunque operazione economico-finanziaria.
È obbligo di ogni cittadino formarsi e informarsi affinchè possa compiere scelte personali e consapevoli che non deve giustificare in nessun modo con la delega a terzi.
“…nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato”
(Epicuro di Samo, 341 – 271 a.C.)
LE EMOZIONI
Di seguito vengono raccolte alcune emozioni provate dai ragazzi dopo aver visitato i luoghi della catastrofe ed aver toccato con mano la “tristezza” dovuta alla perdita e all’abbandono.
Questo percorso didattico non vuole essere una semplice commemorazione o uno sterile ricordo, vuole essere un monito anche per le future generazioni.
I nostri ragazzi che all’epoca non erano neppure nati, hanno saputo incarnare i sentimenti della popolazione che ha subito lutti e perdite ma soprattutto un vile tentativo di cancellazione della memoria storica.
Quello che oggi possiamo fare è dare voce all’opera di Alvaro Valdinucci e di Riccardo Massimiliano Menotti nella speranza che non vengano ripetuti gli errori del passato e che progressivamente si formi una coscienza civile che porti la popolazione ad essere sempre più attenta e consapevole, in grado di svolgere l’opera di una cittadinanza attiva.
Un popolo che perde la sua memoria perde una parte di se stesso.
Un popolo che non sa trasmettere ai propri “figli” il ricordo e le emozioni è un popolo destinato a scomparire o a soccombere.
È obbligo morale di una istituzione educativa come l’Istituzione Scolastica, fornire ai propri studenti tutti gli strumenti utili per poter capire il presente, valutare il passato e costruire serenamente il futuro in modo obiettivo, etico e consapevole.
Troppo spesso sottovalutiamo le potenzialità degli studenti che ci stanno attorno.
Considero questo un bell’esempio di ciò che alunni di 2° media possono dare a noi adulti come spunto di riflessione ed analisi critica circa la metodologia didattica e la motivazione allo studio.
Dr. Geologo Gianluigi Boccalon
Insegnante
Tommaso Nordio classe 2°H
Il giorno 5/11/2013 i miei compagni ed io, accompagnati da alcuni professori, siamo
partiti dalla scuola media alle 8:30 circa per andare a vedere la diga del Vajont e vi
siamo arrivati verso le 11:00.
Scesi dal pullman la nostra guida Paolo ci ha raccontato brevemente la storia del
Vajont.
Abbiamo camminato sopra la frana e solo allora mi sono reso conto della grandezza e
del peso di questa.
Io mi chiedo come la morte di 2000 persone sia stata provocata da persone così ignobili
da non potersi neanche definire così dato lo sterminio che hanno provocato.
Durante la realizzazione della diga è stato fatto costruire il “Passaggio del Bypass” che
avrebbe dovuto servire a portare acqua nel punto in cui è caduta la frana.
Sapevano che questo sarebbe successo, prima di tutto dalle relazioni tecniche di illustri
geologi, ma anche da varie parole: “patoc” significa marcio-sfatto, Vajont invece significa
va giù.
Perché allora i costruttori e progettisti della diga non hanno dato ascolto ai geologi e a
queste parole? Una risposta c’è, perché erano interessati solo ai soldi.
Poco dopo siamo “saliti” su uno spiazzo ma non si capiva bene cosa fosse, allora la
guida ci ha spiegato che era la cabina di controllo della diga.
In un angolo c’erano circa 3 metri quadrati di vetro con sopra un cartello con scritto :”…
la minima parte che rimane del pavimento della cabina…”.
Io sono rimasto esterrefatto perché una volta saliti li sopra c’era tanta aria fredda che
soffiava molto forte.
Da li si riusciva a vedere tutta la diga e Longarone (il paese che è stato raso al suolo
dall’onda provocata dalla caduta della frana).
Subito dopo siamo passati sopra la diga e, guardando a destra e a sinistra, si notava
l’enorme differenza d’altezza tra le due parti.
Mentre ero in mezzo alla diga ho sentito un brivido scorrermi lungo la schiena che mi ha
molto turbato e ho pensato che pochi metri sopra di noi un’onda di 25 milioni di m3 di
acqua ha scavalcato la diga.
Se osservando Longarone guardavi 30 gradi a destra e a sinistra notavi le pareti erose e
scolpite dall’immensa forza dell’acqua.
Passati dall’altra parte, qualche decina di metri più avanti, lungo una staccionata,
c’erano centinaia e centinaia di bandierine colorate che stavano ad indicare i 487
ragazzi al di sotto dei 15 anni morti.
In quel momento, io e qualcun’ altro, siamo stati zitti per il rispetto dovuto a quelle
vittime.
Le bandierine capovolte dall’aria le abbiamo girate perché nessuno doveva essere
dimenticato.
Io, in quei pochi minuti, mi sono “pulito” dentro da tutti i miei pensieri che non
c’entravano niente con quell’argomento e ho pensato solo a quei poveri bambini e agli
adulti che sono morti in quel disastro provocato da persone orribili.
Su molte di queste bandierine c’era scritto:” SONO UN BIMBO MAI NATO”.
Io non ho pianto fisicamente ma dentro, con il cuore.
La cosa che più mi ha toccato e dispiaciuto è stata una sola bandierina, ma che ne
valeva per dieci con scritto:” SIAMO DUE GEMELLI MAI NATI”.
Più tardi siamo andati in una vecchia scuola che ora è un museo fotografico.
In un quadretto c’era una scritta che diceva:” Per tutta la notte avevo sentito le persone
di erto che chiamavano i loro cari. voci che mi sembra di sentire ancora oggi “ mamma,
papà?”.
non ci potevano essere risposte perché molti erano morti”.
Li, in quel momento, sono rimasto immobile come se quella scritta si fosse impadronita
di me.
Passando per la vecchia Erto si notavano molte case, il 30% di esse erano diroccate.
Sono state chiamate “Fantasmi di Pietra”, perché gli abitanti di queste erano in cerca di
lavoro e non trovandolo nel paese hanno deciso di trasferirsi e di abbandonarle.
Dopo aver cercato di esprimere i miei sentimenti vi lascio riflettere su questa terribile
vicenda.
Rocco Billio classe 2°H
Arrivati al Vajont una guida ci fece notare fin dove arrivo l’acqua e notai che stare li era
quasi come stare sulla luna.
Dopo una breve spiegazione ci inviammo per una via che conduceva alla diga.
Da dove eravamo a questo boschetto c’ era un enorme differenza nel bosco c’era un po’
di verde ma nella cima era tutto grigio, senza alberi ne terra c’erano solo dei sassi.
Li la guida ci spiegò che una volta anche li c’era bosco ……… rimasi stupito dalla forza
della frana e dell’acqua e rimasi anche stupito di quanta natura fosse stata rasa al
suolo.
Continuando il viaggio arrivammo alla diga e rimasi stupito da quanto acqua e quanto
materiale roccioso si abbattè sulla valle.
Guardando giù dalla diga avevo un po di timore di cadere ma questa paura mi passò
presto.
Usciti dalla diga ci incamminammo per andare all’autobus per raggiungere il luogo da
cui eravamo partiti.
A metà cammino intravidi delle bandierine colorate che all’inizio mi mettevano allegria
ma poi mi accorsi che su di esse c’erano scritti i nomi dei bambini morti a causa della
frana.
Rimasi scioccato, le bandierine erano un’infinita ……………. mi veniva quasi da
piangere, quante vite spazzate via per l’ ignoranza dell’uomo e l’avidità di alcune
persone senza scrupoli, tanti bambini, alcuni neanche nati.
In quel luogo ho pensato ai genitori rimasti senza i propri figli, a quante lacrime versate
per quella tragedia.
Arrivati all’autobus le bandierine erano finite e questo mi tirò un po’ su il morale.
Al centro del paese di Erto visitammo un piccolo museo sulla strage del Vajont e anche
li vidi molti cartelloni con scritti i nomi delle persone morte ed alcuni documentari
dell’epoca sulla frana che facevano vedere i soldati che con le barelle soccorrevano le
persone e oltre a questo la distruzione del territorio.
Dopo aver finito di vedere il museo andammo per i viali della vecchia Erto e anche li si
poteva vedere la distruzione che la frana aveva provocato nel “tessuto sociale”: molte
case disabitate, molte distrutte a causa dell’abbandono e praticamente vuote.
Si poteva notare che molte persone cambiarono città anche per cambiare vita e
dimenticare di quella tragedia.
Finita la visita tornammo a casa con l’autobus e li riflettei su quante persone sono state
tolte ai propri cari e a quante persone sono morte.
Giovanni Carniato classe 2°H
Dopo tante parole, finalmente, abbiamo potuto provare, sentire e ascoltare, le quasi
2000 vittime.
Persone che per colpa, e incuria, hanno lasciato questo mondo senza motivo, a causa
di uomini senza scrupoli e cuore, che hanno preferito il profitto economico alla vita
umana.
Dopo due ore di viaggio ci fermiamo in una “piazzola” a fianco della strada dove da una
parte c’è un dirupo e dall’altra pezzi di macerie ammassati, lasciati da quell’immensa
catastrofe.
Lì ci aspettava la guida Paolo (per la seconda H con i prof. Scartozzi e Cavallaro) e
Franco (per la seconda I con i prof. Boccalon e Scarabello).
Essi ci hanno accompagnato in un bosco, dove 260 milioni di mᶟ sono scivolati sul
bacino della diga, quella diga che costruita in quel posto, proprio là dove non doveva
essere realizzata.
Quella diga che ha provocato quasi 2000 morti.
Se penso che quando noi perdiamo anche solo una persona cara soffriamo tantissimo,
provo a pensare a quelle persone che non hanno neanche più un ricordo dei loro morti!
A questo punto nel centro del bosco ci siamo fermati in un’altra “piazzetta” dove
abbiamo mangiato e da dove si poteva notare la famosa fenditura a W indicata da
Mϋller.
Sopra fauna e flora, sotto la nicchia del distacco, la roccia pura.
Alla nostra destra in alto c’era, sulle pendici di una montagna, il piccolo paesino di
Casso, si vedevano ancora le numerose case rimaste in piedi.
Ripreso il cammino ci siamo inoltrati nel bosco, Paolo ci ha mostrato come, a causa
della frana, gli alberi si sono piegati visibilmente, trasportati dall’enorme massa di terra e
roccia in movimento.
Come le persone che vivevano nei paesetti attorno hanno cercato di rivedere e seguire
la luce.
La differenza sta nel fatto che solamente gli alberi continuano a seguirla…. le persone
no.
Completato il secondo tratto del cammino nel bosco, abbiamo raggiunto, “Lei”, la
maledetta causa di tanto dolore e disperazione; ci siamo fermati su uno spiazzo, dove
Paolo e Franco ci hanno raccontato della diga e di un po’ di curiosità.
Io non ho quasi mai ascoltato la guida, ma ho ascoltato chi mi sentivo in dovere di
ascoltare…………. il mio cuore.
Lo ho ascoltato ed ho seguito tutte le mie emozioni, ho ascoltato tutte le grida delle
persone che chiedevano di uscire dalla terra, ho ascoltato le voci, di chi gridava
giustizia, e ho sentito meno forti le voci di chi, non so come, riposava in pace senza
rimorso come quegli infami che hanno osato giocare con la vita delle persone.
Con la vita di quelle persone che non hanno avuto neppure giustizia, in quanto i
responsabili non hanno subito le pene che si meritavano di ricevere dopo quelle gravi
mancanze che hanno causato la catastrofe.
Tutto questo mi è passato per la mente mentre attraversavo la diga.
A destra, il bacino era coperto da oltre 200 metri di roccia franata che la diga ha
bloccato, mentre dall’altra parte si vedeva l’acqua che usciva ancora da una piccola
galleria e precipitava per più di 200 metri nel vuoto.
Dopo ciò, ci siamo incamminati lungo un sentiero a fianco della strada che ci ha
riportato al bus.
Lungo quel percorso c’erano 487 bandierine colorate appese su di una staccionata di
legno ……..e quel silenzio “gridava” giustizia per tutte le vittime della strage!
Giustizia, per 487 bambini sotto i quindici anni, che sono morti.
487 bambini alcuni mai nati. Come se tutta la Casteller, finisse, più nessuno, solo te, e
nessun ricordo.
Però quei 487 bambini morti, con questa gita, in mezzo a tutta quella tristezza, fanno
ancora sorgere un sorriso o forse una lacrima di felicità………. allora pensi che, siccome
su ogni bandierina c’è un nome e un cognome, forse non erano morti del tutto?!
Di sicuro l’anima dei 2000 morti c’è ancora, quella non è morta, e bisogna continuare a
farla vivere, e farla vivere è il minimo che possiamo fare visto che la giustizia non c’è
stata.
Infine il pullman ci ha portati nella vecchia scuola di Erto, dove dopo il disastro, dato che
non c’era più nessuno, era diventata un “museo”.
In quel “museo” si era circondati dai ricordi, ricordi delle perone morte, ricordi che
servono a tenere in vita l’anima di tutte quelle persone.
In quel “museo” ci sono le tradizioni e la cultura della gente che abitava quel posto,
testimonianze, testi scritti da persone che, come Tina Merlin, volevano solo verità e
giustizia.
Usciti dal “museo”, siamo passati lungo la via principale della Erto vecchia.
C’erano numerose case, vuote, crollate e abbandonate, dove si celava un freddo, un
freddo che fa rabbrividire, perché lì abitavano amici, parenti, forse sconosciuti per i 2000
morti, ma che li hanno sentiti, e che hanno influito molto nella loro vita, gente che si è
suicidata lentamente per via della strage causata da persone senza scrupoli.
Dopo aver passeggiato lungo la via principale, mi sono soffermato davanti a una statua,
dietro a cui, più sotto di cinque metri rispetto al ciglio della strada, mi blocco sulla
visuale agghiacciante del cimitero.
Non era quello delle quasi 2000 vittime, ma per me lo era come se lo fosse stato.
Forse alcune di quelle tombe erano vuote e c’era solo il nome.
Questa gita mi ha fatto riflettere molto, e mi è parso quasi impossibile che possano
esistere uomini senza cuore in grado di dare origine a tanto orrore ed a una tale strage.
Solo scrivendo questo mi salgono i brividi dalla schiena, la mia testa si riempie di ricordi
e in questi casi posso solo pensare che esistano persone come Edoardo Semenza o
Franco Giudici che hanno cercato il bene e la verità e proprio per questo saranno
ricordati.
Ora però penso che divulgare questo ricordo sia compito anche mio.
Chiara Sartor classe 2°H
Arrivati ai piedi dell’imponente montagna, mi sono sentita piccola, mi trasmetteva paura.
Poi abbiamo percorso un sentiero: la prima parte e stata dura, era difficile ascoltare la
guida (Paolo) e non pensare a quello che era successo……. alla gente morta per colpa
di quegli uomini e del loro cervello che non hanno usato!
Ad un certo punto mi sono bloccata un attimo e ho guardato giù : non è facile esprimere
la sensazione che ho provato: rabbia, dispiacere,vergogna.
Durante il tragitto c’erano alberi storti proprio per la catastrofe ed è in quel momento che
mi è venuto da pensare che non è stata distrutta una popolazione ma è stato cancellato
tutto, è rimasto solo il niente!
Anche se c’ero già già stata in questi posti, solo ora mi sono accorta che prima avevo
solo visto, non osservato, guardato con gli “occhi del cuore” .
Paolo, la guida, è stato bravo, ha saputo spiegarci gli argomenti in modo semplice e
chiaro.
Arrivati sul punto dove dovevamo salire per attraversare la diga, l’ho guardata e ho
pensato a quanta paura deve aver provato la popolazione vedendosi arrivare quell’onda
di 250m sopra, quanto le famiglie si siano strette tra loro sperando che fosse solo un
brutto incubo.
Ma la sensazione peggiore la devono aver provata dopo il disastro i sopravvissuti che si
sono trovati senza famiglia, senza amici, senza casa, senza ricordi…………… senza
niente.
Dopo aver attraversato la diga ho visto delle bandierine tutte colorate, non ho mai capito
a cosa servissero, ho sempre pensato fossero per una manifestazione, ma questa volta,
dopo aver letto cosa c’era scritto sopra ho capito.
Erano una per ogni bambino morto o nemmeno nato , saranno state circa 500, una
strage!
Saliti in autobus siamo partiti per andare alla vecchia Erto (dove ci sono i famosi
“fantasmi di pietra”)
Arrivati siamo entrati su una specie di museo , per vedere i modellini e i video relativi al
Vajont.
Quei modellini mi hanno molto colpito e ho potuto rendermi conto di quanto grande è
stato il territorio colpito dalla catastrofe .
Poi abbiamo fatto una camminata veloce sempre lungo una strada della vecchia Erto e
mi sono accorta che l’hanno ristrutturata molto dall’ultima volta che c’ero stata…..ho
pensato che continuando così la gente del posto riuscirà, prima o poi, a trasformare i
“fantasmi” in ricordi……
Prima di risalire sul pullman ,per ritornare a casa, il prof. Boccalon ci ha fatto notare
come la fenditura a “M” , fosse maestosa !
Questa uscita è stata un’esperienza bellissima così ho potuto vedere e capire tutto ciò
che è accaduto a questo territorio .
Daniele Francescato classe 2°H
Eravamo ancora sull’autobus quando l’ho vista: quella era la diga.
Già da lontano potevo percepire la freddezza, di quel muro, quel muro che ancor oggi si
porta un enorme peso sulle spalle, peso che non è il suo.
Un peso che non dovrebbe esserci, ma che comunque non è sulle spalle di chi lo ha
causato.
Arrivati sul posto ho avuto come la sensazione che la frana non volesse essere li.
La sua “casa” era più su, grigia, fredda, come una lastra di ghiaccio.
Tutto sembrava aver perso colore, allegria, quasi non esistesse più la voglia di vivere.
Purtroppo è quell’acqua che ha cancellato la gente, che ha cancellato l’anima, l’ anima
di una valle, che senza colpa, è stata distrutta.
Distrutta da chi voleva solo trarre profitto, da chi sapeva che sarebbe successo, ma che
non è intervenuto.
Anche gli alberi, del bosco vecchio, sembrano aver perso l’anima.
Accasciati al suolo, quasi a indicare la tristezza ed il dolore che veleggiano nell’aria.
La vecchia Erto non è da meno.
Le case grigie, vuote, cadenti, sembrano lamentarsi , come appunto “fantasmi di pietra”.
Fantasmi memori, che al solo sguardo, raccontano tutto.
Le quasi 500 bandierine colorate, attaccate lungo una staccionata, ondeggiano allegre,
come i visi sorridenti di quei bimbi, di quelle vite, che ignare, sono state stroncate.
È facile dire 480, ma quando lo si vede, quando si vede quella moltitudine di foglietti, ci
si rende conto di quel che è accaduto, di quella strage di innocenti, provocata da
persone (sempre che possano essere definite tali) prive di sensibilità, prive di un briciolo
di umanità e che non hanno pagato per le loro colpe .
Marta Visentin classe 2°H
Siamo scesi dal pulman e abbiamo percorso un sentiero lungo tutta la frana. Non
riuscivo a pensare che sotto i miei piedi era caduta una frana di 260 milioni di mc che ha
distrutto un sacco di abitazioni e di famiglie.
Un esperto di nome Paolo, ci ha fatto da guida lungo tutto il nostro percorso
descrivendoci la flora e la fauna tipiche di quel luogo.
Abbiamo proseguito lungo un sentiero che si inoltrava dentro la “vecchia foresta”.
Questa sembrava stregata: avevo un po’ di paura ad entrarci.
Gli alberi erano tutti obliqui e ricoperti di muschio. Infatti in quella parte della foresta non
c’era il sole anzi era tutta oscura.
Ho ascoltato volentieri le spiegazioni di Paolo sull’ambiente nella “foresta stregata” e
devo dire che ho provato anche un po’ di dispiacere nel vedere alberi ribaltati.
Mi veniva da pensare che era come un’ingiustizia, come se quella fosse la loro “casa” e
l’avessero dovuta “lasciare” un po’ come gli abitanti di Erto e Casso che hanno dovuto
abbandonare le loro abitazioni ingiustamente costretti dalla S.A.D.E. per scopi di
profitto.
Poi, dopo aver camminato lungo tutto il sentiero, siamo arrivati alla meta principale della
nostra uscita: la diga del Vajont.
Dovevamo attraversarla ma io non avevo paura per la sua grande altezza, anzi, devo
dire che mi è piaciuto camminarci sopra, mi sembrava di essere un gigante, cosa che io
non sono…
Da un altro punto di vista ero arrabbiata e non avrei mai voluto camminarci sopra perché
mi dava fastidio percorrere la causa principale del disastro successo nel 1963.
Abbiamo proseguito lungo un marciapiede a lato della strada e lì, lungo una staccionata
che divideva il sentiero da un dirupo, c’erano appese delle bandierine di tutti i colori con
scritti i nomi e la data di nascita dei 480 bambini morti a causa della frana.
Lì mi è venuto da piangere per il dispiacere e per la tristezza pensando a quello che
ricordavano quelle bandierine.
Quello è stato un momento forse più triste di tutta la gita.
Al ritorno siamo andati a visitare il museo di Erto dove appeso alla parete c’era un
riquadro con tutte le persone morte di Erto e Casso. Poi siamo passati per la “Erto
vecchia” dove c’erano tutte le case vecchie che gli abitanti erano stati costretti ad
abbandonare. Queste case sono state soprannominate i “fantasmi di pietra”.
In un certo senso si addice loro questo nome perché sono quasi distrutte e al loro
interno sono rimaste solo macerie e i ricordi delle persone che le hanno dovute
abbandonare.
La loro immagine mi ha fatto capire l’importanza dei ricordi degli abitanti di Erto.
Avviandomi verso il pulman, ho riflettuto su questa esperienza ed ho capito che mi ha
confermato l’immensità della tragedia che era successa .
POESIA
A camminar,
in mezzo alle case lasciate andar,
ho provato tristezza e dispiacer
nel veder queste, abbandonate al loro destin.
Bisogna ricordar !
ricordar le persone e lasciar accesi i loro lumin
per onorarli tutti!
loro che son stati ormai dimenticati.
Appese stan lungo una staccionata le bandierine,
bambini morti che un tempo giocavano felici son ricordi,
quando l’onda li colse gli rimase solo stringer la man delle loro mamme.
Oramai rimangon incisi sol i lor nomi,
su tombe grigie come il cemento della diga in cui nessun corpo giace!
Ci sia sempre perciò qualcun a ricordarli…
Sofia Massaro 2H
Appena arrivati abbiamo fatto la conoscenza della nostra guida Paolo.
Ci ha spiegato varie cose sulla flora e sulla fauna mentre percorrevamo il sentiero nel
bosco.
Mi sentivo strana, vedendo quegli alberi spostati dalla frana, fino a toccare terra.
E’ possibile che 2000 persone diano morte INUTILMENTE?!
Sì, lo è! Coloro che hanno causato tutto questo dolore, questa perdita dei ricordi di
ognuno dovrebbero pagare!
Ovviamente nessuno si è preoccupato…nessuno! Hanno lasciato perdere la
popolazione ed il rischio che correva.
Rabbia e tristezza si mischiano…tremo al solo pensiero dell’ingiustizia!
Il bosco è tetro, gli alberi sembrano le persone che sono state colpite dalla tragedia…
I superstiti hanno perso ogni cosa, dico ogni cosa…non rimane nemmeno un’ombra di
quello che era un tempo la splendida Longarone.
Madri è padri depressi per la morte dei loro figli, persone che hanno riempito la loro vita
bevendo e bevendo…o meglio, la loro non vita.
Perché quest’ultima se ne era andata con la morte dei loro cari.
La rabbia cresce diventa incontrollabile!
Arriviamo alla diga, il cuore si ferma!
Immensa e pericolosa!
Mi pare incedibile che questa si la stessa di 50 anni fa.
Quando metto piede sullo scalino un brivido mi percorre la schiena…la rabbia si
trasforma in paura!
Paura come se la frana stesse cadendo in questo preciso istante!
Paura di perdere ogni cosa!
Paura per quegli abitanti che sono scomparsi senza saperlo!
Mi chiedo cosa avrei fatto se tutti i miei parenti fossero morti…sola..sarei stata sola.
E tutti quei bambini…che si sono visti morire i genitori davanti agli occhi.
Non ci posso credere!
Dall’altra parte della diga c’è una scritta su una pietra:
“Ai nostri cari compagni, morti sul posto di lavoro”
Morti…per costruire la causa della cancellazione di un’intera comunità!
Mentre torniamo verso il pullman ci accorgiamo della presenza di bandierine colorate.
“che divertenti che sono!” penso all’inizio.
Ma subito, mi rendo conto che non c’è niente di allegro.
Su di esse ci sono scritti i nomi e le età di tutti i bambini morti.
Certi non sono nemmeno NATI!
Alcuni avevano pochi mesi.. altri invece avevano la nostra età.
Spensierati e giocosi…spazzati via ed eliminati per sempre!
Ci si può rendere conto di quanti erano e di quanti non ci sono più!
Quante vite si sarebbero risparmiate se la SADE non fosse esistita!
Ma non serve a niente piangersi addosso, l’unica cosa che possiamo fare è ricordarli.
E queste bandierine dicono molto!
Successivamente facciamo una passeggiata per Erto…la vecchia Erto!
Vedo case abbandonate, con tetti che ormai hanno ceduto.
Sono in preda al degrado, senza vita, sena nessuno che le abiti!
Dentro di esse ci sono fantasmi……fantasmi di pietra!
Troviamo anche una scritta: “Che Dio ci salvi dagli sciacalli del Vajont” e li accanto la
firma M.C (Mauro Corona).
Ogni abitazione avrà una storia da raccontare sui propri abitanti e sull’allegra vita ertana.
Una vita adesso inesistente.
Peccato che il nostro giro finisca così velocemente…volevo girare e girare in tutta Erto
senza fermarmi!
Osservare ogni singola cosa…memorizzare ogni dettaglio!
Passiamo davanti al cimitero.
Tuffo al cuore!
Quante sono…quante sono le lapidi!
Sotto di esse non ci saranno nemmeno tutti i corpi.
E mi sento triste…per tutti coloro che staranno piangendo sopra le tombe dei loro
cari…vuote e fredde!
Altina Bytyci classe 2°H
Scesi dal pullman abbiamo fatto un piccolo tratto di strada e siamo arrivati nel posto
dove era caduta la frana, non riuscivo a guardarlo perché se lo osservavo anche per
poco mi sentivo in colpa e sentivo un gran disprezzo per quegli uomini senza scrupoli
che hanno causato tutto questo senza rendersi conto che stavano distruggendo la vita
di molte persone.
Di circa 2000 persone, detto così potrebbe non significare niente, ma vedere tutto
questo con i propri occhi quasi quasi ti metteresti a piangere.
Poi la guida ci ha fatto visitare il bosco, in quel momento ho sentito come se fossi
entrata in un bosco stregato, perché vedere quegli alberi messi in quella maniera mi è
sembrato come se quel posto non fosse stato trattato con il dovuto rispetto.
Dopo averlo oltrepassarlo non sono più riuscita a sentirmi vivace e allegra.
Quando siamo arrivati alla diga ero più felice ma quando la guida mi ha fatto vedere un
po’ di dettagli ho iniziato a chiedermi cosa avevano provato gli abitanti guardando
nascere quel progetto che ha portato alla loro ingiusta morte.
Quando ormai la guida aveva chiuso il cancello della diga ci siamo recati verso il
pullman e mentre andavamo ho notato delle piccole bandierine colorate con delle
scritte.
Incuriosita ho iniziato a leggere e quando mi sono resa conto di ciò che c’era scritto mi
sono molto rattristata e ho iniziato a pensare .
Poi ho letto anche un insegna dove c’era scritto il numero esatto di bambini morti: 480.
Non sono pochi ma la cosa ancora più sgradevole era che quei poveri bambini avevano
meno di 15 anni .
In quel momento ho cominciato a pensare alle famiglie delle vittime e ho provato rabbia
ma anche interesse nei loro confronti .
Mi dispiaceva il fatto che ormai non si possa più far niente.
Saliti sul pullman siamo andati in una ex scuola di Erto, trasformata ora in un museo che
abbiamo avuto la fortuna di visitare.
All’interno, ho visto molte insegne che mi hanno fatto riflettere e ragionare.
Una di esse diceva: io e mio marito abbiamo cercato di sollevare le coperte per
riconoscere nostro figlio, senza risultato.
Una cosa assai triste .
Usciti abbiamo fatto una passeggiata nella Erto vecchia dove c’erano alcune case che
sembravano essere fantasmi di pietra.
Erano veri e propri fantasmi perché in quelle case, se si possono ancora definire case,
c’erano solo macerie e i ricordi di quella povera gente che è stata cacciata delle proprie
case a causa dell’avidità dell’uomo.
Una frase che ancora adesso mi ricordo è : “Dio ci salvi dagli sciacalli del Vajont M.C.
(Mauro Corona) .
Ora mi immagino che quella povera bambina vivrà senza una casa o un villaggio
protetto.
Poi siamo saliti sul pullman e ho riflettuto molto mi dispiaceva aver visto Erto vecchia
ridotta in quel modo .
Una cosa che mi è piaciuta è che almeno avevano preso la briga di costruire le case ai
sopravvissuti.
Comunque questa gita mi è molto piaciuta e per un po’ mi sono messa nei panni degli
abitanti di Erto vecchia e mi è dispiaciuto che quel posto abbia avuto tutta quella
sfortuna e di non essere stata rispettata.
Quel luogo mi ha in qualche modo parlato e io l’ho sentito col cuore .
Martina Sovernigo classe 2°H
Appena arrivati sul posto, dopo due ore di viaggio, siamo scesi e subito ci ha accolto la
nostra guida Paolo.
Da subito ho notato la nicchia di distacco della frana che era roccia bianca senza un
minuscolo albero o forma di vita proprio come i paesi che sono stati travolti dal disastro.
In quel momento mi sono veramente sentita impotente perché ero davanti alla frana
quella che ha spazzato via in pochi secondi interi paesi, vite nuove e vecchie, che fino a
quel momento non pensavano che la loro esistenza sarebbe finita così velocemente per
colpa di persone senza scrupoli legate solo ai interessi economici e che se ne sono
infischiati totalmente di quello che sarebbe potuto succedere.
In quel momento ho subito pensato alle condanne dei responsabili del disastro.
Quella più alta è stata, infatti, di due anni … e pensare che adesso per un furto di poco
valore si rischi di finire in carcere per un anno e mezzo … Tanta rabbia mi saliva dentro
perché anche solo con il buonsenso si poteva capire che la pena di due anni non era
adatta a quelle persone che hanno causato, una strage tra le popolazioni montanare.
Ma quelle si possono realmente chiamare persone?
Percorrendo un piccolo sentiero in mezzo alla foresta vecchia abbiamo costeggiato il
monte Toc e dopo una breve pausa abbiamo ricominciato a camminare fino ad arrivare
di fianco alla diga.
E anche lì mi è sopraggiunta la rabbia e la tristezza per tutte quelle vittime morte,per
niente.
Cerco di immedesimarmi nei sopravvissuti, hanno perso tutto, la famiglia, i figli, i parenti,
gli amici ma soprattutto la voglia di vivere e l’anima.
Il loro cuore si è ingrigito, come la diga, le tombe di chi è morto e la loro vita è diventata
grigia ingiustamente.
Quelle persone hanno perso tutto e non gli è rimasto più niente, non un punto di
appoggio, non una casa dove rifugiarsi, non un qualcosa che ricordi i loro cari una foto,
un biglietto o solamente qualcosa che ricordi la loro esistenza fino a quel triste
momento, anche solo un pezzo di stoffa impregnato del loro profumo
Ma lì l’unico odore che hanno potuto sentire è quello della morte acido, aspro e colmo di
amarezza come sono ora le loro vite che hanno perso l’unico senso che avevano: quello
dell’amore.
Ormai non hanno più nulla da perdere.
Hanno perso tutto.
Voi cosa fareste al loro posto?
Passando sopra la diga devo ammettere che ho provato molta paura.
Ho pensato alla paura che hanno avuto gli abitanti che si sono visti arrivare addosso
un’onda alta settanta metri, a tutti quei bambini che hanno visto morire i propri genitori, a
quanto forte si sono stretti la mano per far mandare via la paura e a quante lacrime
hanno versato, tante da riempire un altro bacino del Vajont.
Ritornando verso la corriera, abbiamo visto un sacco di bandierine che mettevano
allegria ma che subito dopo si sono dimostrate la cosa più commuovente di tutta la gita.
480 bandierine colorate a simboleggiare i 480 bambini sotto i quindici anni che sono
morti.
480 può sembrare un numero non troppo grande ma credetemi finché non lo si vede
concretamente non ci si può render conto di quanto grande sia e non può di certo non
significare niente.
Molti di quei bambini non erano neanche nati e quindi pensiamo alle mamme e ai papà
che non hanno potuto veder nascere il proprio figlio vederlo crescere vederlo felice.
Una cosa però mi ha un po’ tirato su il morale perché se c’erano scritti quei nomi e quei
cognomi vuol dire che qualcuno li pensa ancora, vuol dire che qualcuno si è ricordato di
loro e che dunque non sono morti realmente perché se qualcuno li ricorda è come se
tenesse viva la loro anima ed è come se fossero qui accanto a noi come una fiaccola
che porta luce e fa chiaro nel buio e finché tutta la gente li ricorda la luce della fiaccola
non morirà mai perché c’è sempre qualcuno che la alimenta.
Penso che questa sia la miglior consolazione per chi si sente solo e disperso.
Quindi non smettiamo mai di pensare a queste persone così, la fiaccola rimarrà accesa
e come per incanto rasserenerà un’altra persona.
Dopo aver finito di pranzare siamo andati nell’ex scuola di Erto e Casso trasformatasi in
museo e lì una cosa mi ha colpito molto.
Su una stanza dove c’erano tutte le immagini riguardanti il Vajont c’era una
testimonianza che diceva: la cosa che mi ha spaventato di più e stata quando hanno
detto “Longarone non c’è più” “Ma come?!‘’ Esclamò mia madre.
Infatti Longarone è stata rasa al suolo e il terreno non era più costituito da terra ma da
macerie. Camminare sopra il terreno di quelle zone mi faceva dispiacere.
Chissà quanti morti abbiamo calpestato durante la gita.
Morti mai ritrovati ma che comunque riposavano in pace.
Dopo la visita al museo abbiamo fatto una veloce passeggiata tra le vie di Erto.
in quel momento ho pensato che il nome fantasmi di pietra descrivesse benissimo quel
paesino ormai senza vita .
Molte persone hanno dovuto abbandonare la propria casa e ricominciare da capo
lasciando lì per sempre aleggiare i loro ricordi che ancora oggi se si ascolta bene si
possono sentire.
Martina Borsato classe 2°H
Scesi dal pullman abbiamo ascoltato la nostra guida Paolo e abbiamo osservato la
frana. Ci siamo inoltrati nel bosco “vecchio” che la frana ha fatto “scivolare” di 400 metri di
quota. L’aver toccato la frana con i miei piedi mi ha fatto sentire triste pensando a tutte quelle
persone morte. Poi il momento più difficile della gita, per me, è stato quello di dovere attraversare la
diga. Sono riuscita a percepire la rabbia delle persone che sono sopravvissute e che hanno
vissuto sulla loro pelle la caduta della frana e visto tutti i loro parenti e amici morire.
Poi abbiamo attraversato il paese di Erto vecchia e per me quelle case,che una volta
erano abitate e ora non lo sono più, hanno parlato facendo sentire lo spirito di coloro
che le abitavano.
In quel momento ho provato rabbia perché a causa di persone senza scrupoli sono
morte più di 2000 persone.
Il momento più toccante per me è stato quello di vedere e toccare tutte quelle
bandierine, che rappresentavano i 487 bambini morti, perché si poteva evitare quella
catastrofe.
Ho provato rancore.
Rancore per tutti quei bambini che hanno visto i loro genitori morire.
Questa gita mi ha un po’ cambiata per quanto riguarda l’importanza del pensare prima di
agire.
Perché io non pensavo prima di fare o dire qualcosa perché posso fare male a
qualcuno. Invece,adesso io penso 10 volte prima di agire che è lo stesso che dovevano fare quelli
della S.A.D.E..
Perché loro hanno fatto del male e distrutto paesi interi.
Brunetta Ludovica classe 2I
Noi ragazzi di 2I e 2H dell’Istituto Comprensivo C. Casteller di Paese, dopo aver
studiato la tragedia del Vajont, siamo andati a visitare i luoghi del disastro.
Lì, oltre ad essere stati in compagnia dei nostri professori e dei nostri compagni di
classe, abbiamo scoperto anche molto altro.
Quando siamo arrivati ho preso subito coscienza del territorio su cui eravamo; ho
cominciato a guardarmi intorno: mi sono sentita strana.
Non amo molto il silenzio e sentirlo intorno a me non è stata una cosa molto piacevole.
Sentire solo il rumore dei nostri passi, delle macchinette fotografiche, la voce di Franco,
la nostra guida, e di alcuni nostri compagni che chiacchieravano.
Quando Franco ci ha detto che stavamo camminando sulla frana, ho provato
un’emozione fortissima dentro di me.
Mi sembrava impossibile che la frana fosse sotto i nostri piedi ed avevo una grande
paura che, da un momento all’altro, crollasse tutto.
Non amo molto vedere i resti di paesi che un tempo erano meravigliosi e non mi piace
vedere montagne ormai distrutte: mi fanno sentire in colpa perché è stato l’egoismo
dell’uomo e la sua avidità a causare questa distruzione.
Una diga progettata molto bene ha potuto distruggere i paesi di Erto, Casso e
Longarone, semplicemente perché costruita nel posto sbagliato.
Quando abbiamo attraversato il Bosco Vecchio, il silenzio più totale ha iniziato ad
avvolgermi; la voce di Franco sembrava svanita nel nulla ed io continuavo a guardarmi
intorno, sempre più insicura.
Attorno a me solo alberi storti, i cui rami erano cresciuti e diventati nuove piccole piante.
Per prevedere la catastrofe, i progettisti avrebbero potuto guardare come gli alberi
avevano iniziato a storcersi.
Questi fusti mi mettevano una grande angoscia: il bosco, anche se vecchio, era ancora
del tutto verde ed esprimeva terrore e spavento nelle sue forme.
L’ingresso al Bosco Vecchio era segnato da un immenso albero storto, su cui
crescevano più di sei alberi.
Attraversandolo, ci siamo fermati davanti ad un albero con ben sedici tronchi che
crescevano su di esso.
L’immagine mi è rimasta impressa in mente: uno spettacolo unico ed incredibile che la
natura ci ha offerto.
Dopo aver attraversato il Bosco Vecchio, Franco ci ha portato sopra la diga.
Ci trovavamo sui resti della cabina di comando dei due bacini.
Lì sopra, a 218 metri d’altitudine (altezza della diga) faceva molto più freddo di quando
eravamo scesi dal pullman.
Da lì credevo si potesse vedere il fondo della diga: in realtà mi sbagliavo.
Era impossibile vederlo anche se eravamo alla sua stessa altezza.
A quel punto non mi sarei per niente aspettata che Franco ci dicesse che avremmo
dovuto attraversarla e così, quando ce l’ha detto, mi sono bloccata
Ho cominciato ad avere il fiatone e mi tremavano le gambe: avevo paura.
La testa stava per scoppiarmi a forza di ripetermi la parola ‘diga’.
Questa mi faceva pensare al vuoto più totale, a un dirupo, a un buco profondo come un
pozzo senza fine.
Così l’ho attraversata in gran fretta, con il terrore che la passerella si staccasse,
precipitasse e si schiantasse contro le rocce che c’erano al di sotto.
Ogni tanto buttavo l’occhio sul fondo e, vedendo l’acqua che usciva dalla galleria di
bypass sotto forma di cascata, cominciai a domandarmi:
1. Quanta acqua c’è in quel piccolo torrente che si forma?
2. Da dove arriva tutta quell’acqua?
La risposta logica alla prima domanda potrebbe essere quella che la quantità di acqua
sia poca, anzi pochissima e che il torrente non sia molto profondo (probabilmente non
supera i 10 cm).
Una risposta logica alla seconda domanda non ce l’ho, ma molto probabilmente tutta
quell’acqua proviene da un lago che sorge lì vicino.
In quel momento avevo voglia di piangere, urlare e dirne quattro a Biadene per non aver
raggiunto quota 700.
Mi ha fatto una grande impressione vedere i ferri su cui era agganciata la strada che
passava sopra la diga prima della catastrofe: erano tutti piegati e arrugginiti e
mostravano tutta la furia dell’onda carica di 260 milioni di metri cubi di roccia.
La cosa più impressionante però era che da un lato vedevo il dirupo, com’è naturale
vedere quando si cammina in montagna, ma dall’altro, purtroppo, si vedeva solamente
la frana: uno spettacolo inatteso e ancora pieno di dolore e angoscia.
Dopo aver attraversato la diga, siamo passati dentro una piccola ‘galleria’ che
conduceva fino alla strada principale.
Passando, siamo riusciti a vedere e a toccare la roccia con argilla: non avevo mai visto
prima d’allora una cosa simile e toccarla mi ha emozionata moltissimo.
Quando ho visto questa roccia mi sembrava pietra normalissima e invece, Franco ci ha
spiegato che in realtà era roccia argillosa.
In seguito il professor Boccalon ci ha portati a visitare i fantasmi di pietra della vecchia
Erto; lì si è potuto notare come l’onda ha sterminato tutto.
La cosa che mi ha lasciata a bocca aperta è che la maggior parte delle case è ancora
adesso in piedi, anche se alcune, all’interno, avevano le stanze che erano stracolme di
pezzi di muro che separavano le camere, mentre in altre si vedevano addirittura
frammenti di lavandino.
Mentre continuavamo il nostro cammino nel vecchio paesino di Erto, abbiamo incontrato
alcuni signori che passeggiavano con aria malinconica e infelice su questo piccolo, triste
e desolato paese.
Li abbiamo salutati e loro ci hanno guardati con un’espressione alquanto triste: avevano
gli occhi lucidi, il viso pallido, turbato e angosciato allo stesso tempo di fronte ai resti di
Erto.
La loro era un’espressione difficile da tradurre in parole, che mostrava l’impossibilità di
essere indifferenti di fronte ad una tragedia così dolorosa e crudele che poteva e doveva
essere evitata.
Mentre tornavamo al pullman, appesi ad una staccionata, abbiamo visto 480 pezzi di
stoffa colorati.
Penserete fossero normali pezzi di stoffa, ma non è così: in realtà rappresentavano tutti
o quasi tutti i ragazzi sotto i quindici anni morti in questa sciagura.
Di questi 480 pezzi, molti rappresentavano bambini che dovevano ancora nascere,
infatti, su di essi, c’era scritto: ”sono un/a bambino/a che doveva ancora nascere”
Non riesco ancora a credere che tutti questi bambini siano drasticamente morti in
questo modo.
Non sopporto l’idea che Biadene non si sia reso conto fin da subito che c’era una frana
pronta a staccarsi nell’arco di poco tempo.
Un sacco di esperimenti l’avevano dimostrato ma lui volle andare avanti e io queste
persone le definisco con una sola parola: egoisti.
Questa diga secondo me l’hanno voluta costruire solo per una questione di soldi, per
diventare più ricchi, per impossessarsi di tutto il danaro possibile.
Tina Merlin è stata l’unica a dare ragione agli abitanti dei paesi di Erto, Casso e
Longarone, solo lei insieme a Edoardo Semenza, il quale aveva fatto una relazione, in
cui diceva quanto fosse pericoloso fare la diga in quel determinato posto.
Era stato scritto anche un libro sulla diga del Vajont che nessuno ha voluto pubblicare
perché in esso sono scritte tutte le verità e soprattutto di chi è stata la colpa: questo libro
è stato, infatti, pubblicato solo ora a ben 50 anni dalla catastrofe.
Chiara Favaretto classe 2 I
La tragedia del Vajont è stata un disastro che si poteva evitare non costruendo la diga in
quel determinato luogo.
Nel 1963 il monte Toc crollò e un blocco di 260 milioni di metri cubi di roccia cadde nel
bacino idrico provocando 3 onde:
una verso monte;
una verso valle;
e un’ ultima che sarà quella che darà origine alla tragedia di Longarone.
Dove l’acqua passa viene cancellata ogni cosa:si salvano solo poche case,che non
vengono travolte dall’onda.
Secondo me non valeva la pena di costruire quella diga se il costo da pagare era la
morte di interi paesi.
Infatti, anche se quest’ opera ha offerto una opportunità di lavoro a moltissime famiglie
della zona, ha anche rovinato e cancellato un’intera comunità, cosa di ricordare in un
futuro per non commettere ancora una volta lo stesso errore.
Le cause principali secondo me erano (e lo sono ancora oggi) il denaro e la mancanza
di coraggio perchè se la SADE ce lo avessse avuto questo eccidio non avrebbe avuto
luogo.
Questo fatto dovrebbe essere reso noto a tutti e non dovrebbe rimanere sottaciuto come
successo negli anni dopo il disastro.
Venne costruito un muro per impedire agli abitanti rimasti di ritornare nelle case che non
erano state distrutte.
Non si volle nemmeno pubblicare il libro di Alvaro Valdinucci che solo ora, dopo venti
anni, con un po di buon senso, è stato mandato in stampa.
ll motivo per cui non venne pubblicato è perchè in questo libro sono scritte molte verità
scomode e sono indicati tutti i motivi per cui non fu fatta sgomberare la zona e non
venne fermata la costruzione della diga.
Secondo me le persone che non vollero pubblicarlo non ebbero il coraggio di affrontare
la verità.
I responsabili della catastrofe non si pentirono e , scontati i troppo pochi anni di galera,
tornarono liberi perchè la corte non riconobbe la prevedibilità della frana.
Quando ho visto la diga ho subito provato tristezza , per quelle persone che sono morte
o che hanno visto morire i loro cari, con la consapevolezza che questo potrebbe
succedere anche a me o alla mia famiglia,
Ho anche provato paura che la diga cedesse e rabbia perchè a causa di alcune persone
sono morte migliaia di donne , bambini e uomini e la vita di una singola persona non ha
prezzo: il denaro non è mai abbastanza per riempire quel vuoto.
lnoltre quando ho visto centinaia di pezzi di stoffa con su scritto le persone scomparse in
seguito al disastro ho sentito come se qualcosa nascesse in me, come se mi sentissi
colpevole di non aver fatto qualcosa per aiutare tutti quei bambini e le persone che sono
morte a causa della mancanza di coraggio e dell’ingordigia dell’ uomo.
Trovo inoltre dal “cuore di pietra” tutti quegli ingegneri o geologi che avrebbero dovuto
far sgomberare la zona ma che non lo hanno fatto.
Devo dire anche che mi è scoppiato il cuore quando ho visto un albero caduto, ma vivo
con molti altri alberelli cresciuti sopra a lui che ci dava il benvenuto nel Bosco Vecchio.
Questo mi ha fatto pensare che anche quelle persone, abitanti di Longarone, Casso ed
Erto hanno lottato con l’aiuto di Clementina Merlin per la propria vita.
Ho pensato a quelle persone che hanno ceduto e che “hanno mollato la presa” e che
forse, ancora oggi, stanno li in quel bosco e nella “strada dei fantasmi di pietra” a
cercare le proprie case.
Li era come se mancasse qualcosa, qualcuno. Era inquietante e triste starci, non c’era
anima viva. La strada era deserta però io sentivo come delle voci di persone, risate di bambini e urla
di donne. Secondo me l’uomo in questo caso ci ha dimostrato fino a dove ci si può spingere per il
denaro e, in un certo senso, dovremmo vergognarci tutti di quello che è accaduto nel
1963.
Questo disastro non sarebbe dovuto accadere ma, in fin dei conti, ci ha anche insegnato
qualcosa :
È MEGLIO CHE UN BEL PROGETTO NON VADA IN PORTO PIUTTOSTO CHE
ABBIA SUCCESSO UN PROGETTO DISSENNATO
(Epicuro di Samo)
Liviero Maria classe 2I
Sul Vajont mi rimangono molte emozioni contrastanti che sento emergere un po’ per
volta una ad una. Vanno da sentimenti come la compassione e la tristezza a sentimenti come la rabbia,
una rabbia diversa dal solito, una rabbia che anche adesso non servirebbe a nulla
scatenare. Quella degli ingegneri, è vero,non è stata una delle migliori mosse dell’umanità ma in
fondo in fondo forse un po’ li compatisco anch’io, quegli uomini accecati dalla fama e dal
denaro.
Forse anch’io al loro posto avei fatto delle scelte sbagliate, con queste righe però non
voglio essere fraintesa, io non li sto difendendo, anzi.
Vedere quel cumulo di roccia caduto all’inizio della gita mi ha fatto venie una rabbia,
come dicevo prima, indescrivibile.
Se solo fossero ancora vivi, se il tempo si potesse fermare, se la frana fosse ancora lì,
andrei io, a nome di tutta la popolazione, a parlare con gli ingegneri, magari anche in
modo indiretto come fatto da Tina Merlin, una giornalista schietta e giusta, pronta a
battersi per i suoi concittadini, e per la quale provo molta ammirazione.
Se tutti quell’anno, come lei, avessero fatto qualcosa, goccia dopo goccia si sarebbe
riempito un intero “invaso” e probabilmente, non sarebbe successo niente.
Probabilmente non avrei provato brutti sentimenti verso gli autori criminali di questo
eccidio.
Passando nel bosco vecchio,quel primo albero che ci dava il benvenuto mi faceva
guizzare alla mente strani pensieri, come una popolazione e una intera comunità,
benché quell’anno fosse successo di tutto, ha continuato a lottare per quello che voleva.
Come quell’albero, anche se crollato e vecchio, lotta ancora per restare in piedi per
continuare a dare il benvenuto a qualunque visitatore, di qualunque nazione e carattere.
E tutti gli alberi a suo seguito , strano ma vero, non mi trasmettevano quell’emozione
mai provata prima, un’ emozione speciale.
Molti erano caduti e non mi facevano un bell’effetto, sembrerà brutto da dire e sentire,
ma mi parevano persone che avevano smesso di lottare per il proprio futuro e per i
propri sogni.
Poi la diga, un misto tra perfezione e stupidità, un’opera d’arte costruita nel posto
sbagliato.
Ė come buttare un Botticelli nella spazzatura.
Passare sopra quella diga è stato elettrizzante, pensare che solo 50 anni fa un’onda di
250 metri la oltrepassò mi fa venire la pelle d’oca, vedere e passare lungo la parete, e
pensare che in fondo tra tutti quegli uomini cattivi alla fine ce ne era qualcuno di buono
come Mario Pancini, un uomo che si suicidò per i sensi di colpa e per non aver insistito
abbastanza in ciò che credeva .
Questo pensiero mi porta ad avere un po’ di speranza per il futuro, per un mondo che,
spero, migliorerà con il passare degli anni .
Vedere tutte quella bandierine, tutti quei bambini piccoli o addirittura non ancora nati
morti mi fa un certo che, mi fa salire le lacrime agli occhi.
Se poi penso che i responsabili di tutto questo non sono neanche stati puniti allora si ho
quasi voglia di vendetta.
Di vendetta per tutte quelle vittime, per tutte quelle famiglie distrutte.
Per una madre avere un milione di lire non è come avere un figlio accanto che la aiuta.
È per questo che credo che i soldi alcune volte bisognerebbe abolirli; perché si crede
che con i soldi si possa risolvere tutto, ma non è così, almeno per come la penso io.
Per non parlare poi dei fantasmi di pietra.
Tutte quelle case ancora lì, che aspettano, aspettano di essere di nuovo abitate e
aspettano i loro costruttori ed i loro primi abitanti della valle ertana.
Una comunità semplice ed unita, ma bastò poco per distruggerla, per strappargli i suoi
abitanti uno ad uno senza fare eccezioni,come si tolgono le erbacce dal giardino.
Il clou, vedere tutti quei nomi sul monumento, già mi fece una tristezza immane, ma
vedere quell’uomo , che usciva dal cimitero con quel viso triste, privo di felicità mi
spezzò il cuore e pensai e capii che niente e nessuno potrà mai ricucire le ferite
profonde dei pochi rimasti
È solo alla fine della gita che ho capito veramente quello che hanno provato gli abitanti
della valle 50 anni fa.
Giorgia Pandolfo 2I
Dopo circa un mesetto dall’inizio della scuola, il nostro professore di matematica e
scienze, nonché geologo, ci ha fatto studiare la verità su ciò che è accaduto a ottobre
del 1963 sulla valle del Vajont.
Abbiamo cominciato prendendo molti appunti sull’argomento.
Abbiamo capito che questo disastro non è stato provocato dalla natura, bensì per colpa
degli uomini che si sono messi contro di lei.
Queste persone hanno provocato la morte di quasi 2000 persone e la distruzione e
cancellazione di interi paesi.
Tutto è cominciato nel 1929, quando l’ingegner Carlo Semenza progettò la diga.
A quei tempi, era la più alta al mondo.
Carlo Semenza chiese al figlio Edoardo di realizzare un controllo sul monte Toc.
Prima, nel 1961, Leopold Műller aveva affermato che sul monte Toc si trovava una
profonda giacitura e aveva detto di abbandonare il progetto della diga.
Nessuna di queste indicazioni venne presa in considerazione e il progetto proseguì e fu
ultimato.
Anche una giornalista della zona: Tina Merlin, prendendo in considerazione la
preoccupazioni della gente aveva scritto vari articoli sull’argomento, ma non venne
ascoltata, anzi venne anche denunciata.
Il 9 ottobre 1963 l’ingegner Biadene scrive una lettera all’ingegner Pancini spiegando, in
modo preoccupato, tutto ciò che succede, e termina con un: “Che i Dio ce la mandi
buona”.
Alle ore 22.39 dal Toc si stacca una frana di 260.000.000 di m3 di roccia che cade sul
lago, originando tre onde.
Tutto questo accade in 90 secondi.
Questo fatto non solo cancella vite, ma anche l’economia.
50 anni dopo, il 5 novembre 2013, noi delle classi 2^I e 2^H della scuola media C.
Casteller di Postioma di Paese, abbiamo fatto visita al luogo in cui è successo quel
disastro.
Siamo andati sopra la diga ed è stato veramente impressionante, da lì siamo riusciti ad
immaginare quei fatidici 90 secondi.
Poi siamo andati a vedere i “Fantasmi di pietra” passeggiando tra le vecchie abitazioni
di Erto.
É stato molto strano, camminare per le vie di quel paese sperduto.
L’impressione che mi ha suscitato è stata di sospensione, perché quelle case sembrava
che aspettassero di essere abitate.
Inoltre abbiamo fatto visita a un piccolo museo dove erano accolte varie foto della valle
del Vajont.
É stata una gita che secondo me ha fatto riflettere.
Il giorno seguente alcuni di noi hanno ripreso, insieme in classe, le emozioni emerse
dalla nostra uscita.
Un pensiero comune a tutti era che noi alunni (e credo anche gli insegnanti) abbiamo
provato una sensazione inspiegabile, sia mentre attraversavamo la diga sia tra le vie dei
“ Fantasmi di Pietra”.
Questo percorso per me è stato molto importante, mi ha insegnato e ci ha insegnato che
alcune volte gli uomini, pur di guadagnare denaro passano sopra alle vite delle persone.
Credo che ciò che è accaduto nel 1963 dovrebbe far riflettere tutti, perché nel 2013
l’uomo non ha ancora imparato nulla dai propri errori, anzi, talvolta li peggiora.
Nicola Turniano 2I
INTRODUZIONE: Il 5/11/2013 dopo un lungo percorso di studio sulla frana del Vajont,
siamo andati in uscita in comune di Erto E Casso, dove è ubicata la diga del disastro.
STRUMENTI: 1-Abbigliamento idoneo alla montagna 2-Macchina fotografica 3-Binocolo
PARTECIPANTI: Classi 2I e 2H del plesso I.C. Casteller della sede di Postioma;
accompagnati dai professori Scarabello, Boccalon, Cavallaro, Scartozzi.
METODI: Abbiamo fatto un lungo percorso di studio in classe ed abbiamo scritto molti
appunti sul Vajont guidati dal professore Gianluigi Boccalon.
Questo lungo percorso mi è sembrato molto interessante perché, grazie ad esso, ho
potuto conoscere la vera storia di una catastrofe prevedibile ed evitabile.
Catastrofe che, come ci ha spiegato il professore, Tina merlin aveva intuito fin dall’inizio.
Ho anche capito tutta questa storia è stata creata da persone senza scrupoli, accecate
solo dal potere e dal denaro.
La diga, che attualmente, con 264,6 metri, è la 5a più alta del mondo, è stata lo scopo
della nostra uscita didattica.
Il 5 novembre 2013 con un pullman della ditta “Martinelli” siamo partiti per Erto.
Arrivati nella località sede comunale di Erto e Casso, abbiamo fatto una passeggiata
nella quale ci ha accompagnati il Signor Franco come guida.
Siamo passati dal il laghetto di Massalezza e abbiamo attraversato il Bosco Vecchio.
Il laghetto scavato dalla frana mentre il bosco è stato trasportato dalla frana che lo ha
fatto “scendere” di 400metri di quota.
Siamo passati sul coronamento della diga (cosa che non vorrei più rifare perché mi ha
impressionato moltissimo) siamo ritornati a mangiare a Erto.
Abbiamo visitato il Museo Del Vajont, nella sede del parco naturale Dolomiti Friulane e
infine abbiamo fatto una passeggiata tra le vie della “Erto Vecchia”, che mi è sembrata
un paese quasi fantasma.
CONCLUSIONI: Sono contento di questo percorso fatto sul Vajont perchè mi ha
permesso di riflettere su questa grande tragedia italiana.
Carlotta Zamai 2I
Le cose che mi sono riamaste dopo il percorso che abbiamo fatto sono che tante
persone hanno avuto paura di dire la verità.
La frana era li da milioni di anni ma costruendoci vicino una diga hanno peggiorato le
cose. Carlo Semenza aveva avuto una bellissima idea ma l’aveva realizzata nel posto
sbagliato. Una cosa che non mi è piaciuta è che la diga non sia stata affidata alle persone giuste e
coscienti di quello che stavano facevano.
Tina Merlin è stata coraggiosa ad affrontare le persone più “pericolose”, cioè i costruttori
della diga.
Sono stati fatti tanti esperimenti sulla diga e tutte le persone che avevano agito in modo
corretto affermavano che era meglio che ci si fermasse e non si andasse avanti con il
progetto. La caduta della frane del 1963 è stata fatale.
L’energia liberata dall’evento corrispondeva a quella di due bombe atomiche, e non
posso pensare a quando gli uomini, le donne e i bambini, hanno visto passare sopra di
loro una grande pioggia, un enorme onda che li ha fatti morire.
Gli abitanti di Erto sono stati salvati grazie ad una nicchia rocciosa posta prima del
paese. Nel bosco vecchio ci sono alberi che, seguendo il percorso della frana, hanno cercato
un “posto” dove poter ancora prendere la luce del sole e continuare a vivere.
Sopra questi alberi caduti si erano “costruiti” altri piccoli alberi che ridavano vita al
vecchio albero sottostante.
Sul disastro del Vajont sono stati scritti molti libri ma nessuno di questi ha scritto in
modo chiaro i nomi ed i cognomi dei colpevoli dell’accaduto.
Alvaro Valdinucci nel 1993 a trenta anni dalla frana aveva pronto il manoscritto, un libro
in cui descriveva i dettagli degli studi, le coperture ed i responsabili.
Il libro non venne pubblicato perché non ci fu nessun editore che volle pubblicarlo.
Nel 2013 il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Geologi ha deciso di rendere pubbliche le
ricerche di Valdinucci..
Dopo gli studi fatti a scuola e quanto ho visto durante l’uscita sulla diga, sono
consapevole di sapere molte cose sulla verità che sta dietro alla tragedia del Vajont.
Di questo questo ne vado fiera ed orgogliosa, e spero che con il passare del tempo
molte altre persone abbiano la possibilità di poter conoscere la verità come è capitato a
me.