«Ci fu chi scrisse che la chimica nacque in Francia, ma, a ben più forte ragione, si può asserire che la vulcanologia nacque in Italia. Poiché italiani furono i primi studiosi dei fenomeni vulcanici, e ai vulcani attivi e spenti d’Italia pellegrinarono i più rinomati vulcanologi stranieri per confermare e correggere con lo studio dei fatti le loro teorie».
Giuseppe Mercalli, uno dei più grandi vulcanologi e sismologi italiani di sempre, scrive così nella prefazione del suo volume ”I Vulcani attivi della terra”, pubblicato nel 1907, periodo in cui l’Italia stava perdendo l’importanza e il primato nello studio della vulcanologia acquisiti nei secoli precedenti. Sostenne Mercalli che due eventi hanno contribuito alla nascita della vulcanologia, ovvero l’eruzione del Vesuvio del 1631 e quella dell’Etna del 1669, poiché “fino a tutto il secolo XVI non si può dire che esistesse una vera scienza dei vulcani, neppure in embrione, poiché di essi parlano gli storici e i filosofi, ma solo incidentalmente e sempre molto brevemente a completamento della cronaca civile dei popoli o ad illustrazione di teorie filosofiche”.
La vera figura del vulcanologo, intesa in senso moderno, va delineandosi tra la fine del ‘600 e i primi anni del secolo successivo, quando i naturalisti italiani e stranieri approdarono sul Vesuvio, sull’Etna e sullo Stromboli. Il periodo d’avanguardia della vulcanologia italiana si può collocare tra gli ultimi anni del ‘700 e l’inizio del ‘900. In questo arco temporale di circa un secolo furono introdotti termini nuovi,molti dei quali tuttora utilizzati, nuove conoscenze geo-vulcanologiche e tecniche per ridurre il rischio vulcanico.
Nonostante la vulcanologia come scienza sia nata in età moderna, l’interesse verso i fenomeni vulcanici è rintracciabile sin nell’antichità. Infatti le eruzione etnee furono le prime ad essere descritte e tramandate alla memoria. Nel 122 a.C. il governo romano esonerò i catanesi dal pagamento delle tasse per un decennio visti gli ingenti danni provocati alla città dai prodotti dell’eruzione esplosiva. Questo evento costituisce il primo intervento istituzionale per una calamità naturale. Una svolta importante risale al 79 d.C., quando i romani Plinio il Vecchio e il nipote Plinio il giovane osservano l’eruzione del Vesuvio. Il primo, spinto dalla curiosità di un fenomeno mai osservato si inoltrò sulle pendici del vulcano rimanendo vittima dell’eruzione. Il secondo, invece, scrisse la prima descrizione vulcanologica delle eruzioni che successivamente saranno chiamate “pliniane” in suo onore.
Dopo il medioevo una nuova svolta si ha nel 1536 con l’eruzione dell’Etna. Nasce in questa occasione un nuovo modo di descrivere le eruzioni e furono introdotti nuovi termini, come “fumo” o “eruzione”.
Nel XVII secolo si hanno le due più grandi eruzioni di età moderna in Italia, quella del 1631 del Vesuvio e quella dell’Etna del 1669. Durante la prima la produzione scientifica ammontò a circa 150 relazioni. Ma solo in seguito all’eruzione etnea fu scritto il primo trattato di vulcanologia moderna, l’Historia et meteorologia incendii aetnaei,di Giovanni Alfonso Borelli pubblicato a Reggio Calabria nel 1670. Nella stessa eruzione, per quanto riguarda l’aspetto tecnico-ingegneristico, furono condotti i primi esperimenti di deviazione dei flussi lavici. Uomini muniti di arnesi metallici e protetti da pelli animali bagnate incisero i fronti laterali della colata principale riuscendo a smorzare, seppur di poco, l’unico flusso che scorreva. Nel 1983 è stato effettuato sempre sull’Etna, similmente a quanto accaduto nel 1669, il primo intervento con esplosivo su una colata attiva per controllare e deviare i flussi lavici.
Sul finire del ‘700 l’attenzione è rivolta verso l’analisi dei prodotti vulcanici. Lazzaro Spallanzani nel 1792 tenta di descrive mineralogicamente le lave dello Stromboli. Nello stesso periodo Francesco Ferrara si propone di spiegare scientificamente l’origine delle eruzioni laterali che avvenivano frequentemente sull’Etna. Secondo Ferrara la lava ascendendo attraverso il condotto centrale e raggiunto il cratere trova attraverso i fianchi del vulcano la strada per essere eruttata. Così afferma nel 1818 nella seconda edizione della Descrizione dell’Etna: «Le eruzioni laterali non vengono dunque da lave che hanno dovuto forare il suolo della Terra, e il corpo dell’Etna; esse si sarebbero versate dal cratere se nello elevarsi per la cavità centrale non fossero state determinate a colare per canali sotterranei prima che avessero potuto sortire, e colare sopra la superficie».
Durante l’eruzione vesuviana del 1822 Teodoro Monticelli e Nicola Covelli osservano alcuni picchi eruttivi del Vesuvio. Chiamano queste fasi di intensa attività “parossismi”, termine ancora in uso soprattutto negli ultimi anni per le recenti eruzioni dell’Etna.
Qualche decennio dopo fu fondato l’Osservatorio Vesuviano, il più antico osservatorio vulcanologico del mondo. La sede attuale è sita a Napoli, ma nel 1841, anno d’inizio della costruzione, fu scelto il Colle del Salvatore nell’attuale comune di Ercolano a circa 600 metri di quota. Quel luogo, che presenta un rischio di invasione lavica basso o addirittura assente, permetteva una migliore osservazione dei fenomeni vulcanici del vicino vulcano, essendo distante solo due chilometri dalla vetta del Gran Cono. Nel 1880 sempre sul Vesuvio è inaugurata la funicolare, il primo impianto di risalita su un vulcano attivo. Qualche anno dopo, nel 1888, l’isola di Vulcano dell’arcipelago delle Eolie mostra una nuova fase eruttiva. L’eruzione ha delle caratteristiche diverse da quelle degli altri vulcani e ciò spinge il vulcanologo Orazio Silvestri a coniare il termine “eruzione vulcaniana”.
Nel 1904 Piero Gironi Conti sfrutta il vapore dei soffioni boraciferi di Larderello, un’area vulcanica toscana, per la produzione di energia elettrica, fondando la prima centrale geotermica.
Nei primi anni del ‘900 la scoperta di nuovi vulcani in zone remote del pianeta e il loro studio da parte di vulcanologi stranieri determinò il declino della vulcanologia italiana. Mercalli, che può essere considerato l’ultimo grande esponente italiano, accortosi della decadenza di quella augurava nel 1907: «Dobbiamo quindi augurarci e cooperare, per quanto è noi, perché questo primato rimanga all’Italia anche nel secolo nuovo».
Guglielmo Manitta