Come, partendo da un caso reale portato alla conoscenza dell’Autorità Giudiziaria, esplorando il panorama di norme applicabili con riferimenti giurisprudenziali e soffermandosi su alcuni principi applicabili, è possibile giungere alla risoluzione (almeno nella forma del tentativo) della questione.
Il caso delle inondazioni del 2014 nel comune di Cicciano.
di Piervittorio Tione
Avvocato, esperto in diritto ambientale
Troppo spesso assistiamo ad eventi climatici, a fenomeni naturali, ad elementi della natura che si trasformano, a causa dell’azione devastatrice dell’uomo e complice il suo “menefreghismo ambientale”, in responsabili (apparenti) di vere e proprie tragedie, con conseguenze gravi in termini di perdita di vite umane e di distruzione di beni materiali.
Ed in molti casi, con una razionale politica di prevenzione e cura del territorio, molti di questi tristi fatti, come spesso si accerta in un momento successivo alla conta dei danni e poi si proclama, si sarebbero potuti evitare o contenere.
Nel corso della professione mi è capitato, ed ancor oggi avviene, di dover gestire, nell’interesse di privati cittadini, casi di esondazioni di alvei o di malfunzionamento di impianti idrici (acque bianche o liquami fognari).
Per lo più trattasi di aziende agricole che, a causa dello straripamento di fiumi o canali irrigui, i cui letti o sponde non sono ben manutenuti, patiscono danni seri alle colture presenti ed alla fertilità del suolo.
Il contributo che intendo dare, oggi, alla testata giornalistica “Conoscere Geologia” , è illustrare ai lettori una delle possibili azioni giudiziarie che il quisque de populo ha per poter difendere i propri diritti e chiedere un eventuale ristoro dei danni sofferti.
La metodologia è la seguente:
partire da un fatto concreto, da un caso reale, portato alla conoscenza dell’Autorità Giudiziaria, esplorare il panorama di norme applicabili, con riferimenti giurisprudenziali, soffermarci su alcuni principi applicabili e, infine, giungere alla risoluzione (almeno nella forma del tentativo) della questione.
Questo l’accaduto: nel mese di giugno 2014 e precisamente tra il 17, 18 e 19 nel comune di Cicciano, in provincia di Napoli, a seguito di precipitazioni, si verificava l’esondazione di vari alvei (maggiori e minori di portata) tra cui il canale Avella (località Spennata) ed il canale Sasso (località Madonna degli Angeli).
La furia delle acque provocava l’allagamento di diversi campi agricoli, coltivati, al momento del fatto, a noce e noccioleto. I terreni si presentavano agli occhi del personale di polizia intervenuto sommersi di acqua maleodorante, mista a melma, detriti di ogni genere. Materiale tutto fuoriuscito dagli alvei indicati. La causa dei fenomeni di esondazione appena descritti era, senza dubbio, da ricercare nella scarsissima, se non inesistente, manutenzione ordinaria e straordinaria dei predetti lagni, privi da anni di un’adeguata attività di pulizia.
Più in particolare, la presenza di detriti, depositati sul letto dei canali, la vegetazione spontanea, mai curata, gli argini assolutamente fatiscenti, determinavano l’impossibilità per le predette arterie idriche di assolvere alla loro principale funzione: id est il ricevimento e deflusso delle acque meteoriche.
Gli straripamenti del giungo 2014, documentati anche dalla Polizia Municipale di Cicciano, assumevano così il carattere di vere e proprie inondazioni, provocando ingentissimi danni tra cui:
I) la distruzione totale delle colture praticate, con incommerciabilità dei prodotti;
II) la ridotta produzione a causa della perdita di fertilità dei suoli per l’annata agraria in corso e per la successiva;
III) l’alterazione profonda sia della morfologia che della stratigrafia della superficie;
IV) oneri economici per la rimozione dei detriti sversati dal canale con smaltimento dei rifiuti esondati unitamente all’acqua, il tutto per risistemare lo status quo ante;
V) il danneggiamento delle strutture e mezzi agricoli.
Danni accertati anche in una consulenza di parte.
La responsabilità per i fatti appena narrati, come di seguito si dirà, deve essere ascritta, in via esclusiva, alla Regione Campania, in verità già condannata anche in altre occasioni dal Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche per l’esondazione del medesimo canale Avella.
Lo stesso nesso eziologico (collegamento fatto-esondazione-danni) è chiaro, non è possibile invocare, attesi anche i precedenti eventi, né il caso fortuito né l’eccezionalità delle precipitazioni. Le otto aziende agricolo coinvolte hanno lamentato danni, come stimato dall’attento consulente di parte dott. Agr. Pasquale Romano di Acerra, per circa quattrocentomila,00 euro.
E’ doveroso però precisare che, prima di adire il Tribunale competente, è sorto un dubbio, più che legittimo e spesso ricorrente in questo tipo di liti risarcitorie: quale ente pubblico deve essere convocato innanzi all’Autorità Giudiziaria?
In altre parole, ci si è posti il seguente quesito: chi è il responsabile degli eventi di allagamento?
E’ la Regione, titolare del demanio idrico, o esiste un Consorzio locale che si occupa della gestione e manutenzione dei canali ed alvei?
Una buona strategia, prima di iniziare un processo, è compulsare una risposta dai possibili responsabili, attraverso la notifica di una diffida stragiudiziale. Ciò servirà ad evitare di coinvolgere soggetti estranei ai fatti di causa ed evitare sonore condanne alle spese processuali.
Nel nostro caso, così si è proceduto. Le aziende agricole inviavano così una richiesta di risarcimento alla Regione Campania ed al Consorzio Generale di Bonifica del Bacino Inferiore del Volturno. L’Ente Regionale non rispondeva, mentre il Consorzio asseriva di non aver la gestione dei canali citati in quanto non erano stati inseriti ancora nei cd. piani di classificazione (redatti di concerto con la Regione).
Dal tenore delle risposte e dei silenzi…, si decideva così di vocare in giudizio esclusivamente l’Ente Regionale.
Ed il fondamento giuridico di tale determinazione? Dove le norme di riferimento per imputare alla Regione puntuali colpe?
Si è invocato, in via generale, l’art. 2051 Cc. ai sensi del quale: “…Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito …”. Presupposti dell’istituto sono l’esistenza di un potere di custodia e di un dovere di vigilanza nonché un legame eziologico tra fatto (straripamento ed esondazione dei canali) ed evento lesivo (distruzione dei prodotti dei campi agricoli).
A spingere però verso la responsabilità esclusiva della Regione è stato, soprattutto, il quadro normativo di settore, attualmente vigente, recepito anche dal Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche presso la Corte di Appello di Napoli Questo TRAP.
Il sistema di norme, che sembra “incastrare” la Regione Campania, è così delineabile e sintetizzabile:
I) ai sensi dell’art. 822 (Demanio pubblico) del Codice Civile appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia (R.D. 11.12.1933, n. 1775; L. 27.12.1953, n. 959; D.Lgs. 12.07.1993, n. 275);
II) in virtù dell’art. 2, lett. e), del D.P.R. 15.01.1972, n. 8, sono state trasferite alle Regioni le funzioni amministrative riguardanti le opere idrauliche di quarta e quinta categoria e quelle non classificate e, in particolare, la sistemazione degli alvei ed il contenimento delle acque dei grandi colatori;
III) in virtù dell’art. 90, lett. e), del D.P.R. 24.07.1977, n. 616 e dell’art. 10, lett. f), della legge 18.05.1989, n. 183, sono attribuite alle regioni le funzioni di polizia delle acque e di gestione, manutenzione e conservazione dei beni, delle opere e degli impianti idraulici;
IV) sebbene il nuovo assetto delle competenze in materia di opere idrauliche, fissato – in attuazione della delega di cui agli artt. 1 e 4 della legge 13.03.1997, n. 59 – dall’art. 89 del D.Lgs. 31.03.1998, n. 112 e dall’art. 34 del D.Lgs. 30.03.1999, n. 96, preveda che – sino a quando la Regione non abbia adottato la legge di puntuale individuazione delle competenze trasferite agli enti minori e di quelle conservate in capo ad essa – il potere/dovere di manutenzione degli alvei dei corsi d’acqua grava sulle Province, questa circostanza – come espresso anche dal Tribunale delle Acque Pubbliche – “non porta ad escludere la responsabilità della Regione Campania che non ha provveduto in alcun modo a trasferire alle Province il personale ed i mezzi finanziari necessari per provvedere alla vigilanza ed alla manutenzione dei corsi d’acqua, di cui tuttora, di fatto, si occupa l’ufficio regionale del Genio Civile” (Sent. TRAP Napoli n. 106/05);
V) ai sensi del R.D. 27.07.1904, n. 523, modificato con L. 13.07.1911, n. 774, le opere di bonifica regolate dalla L. n. 215/1933 rientrano nelle opere di quarta categoria che vanno poste a carico del consorzio idraulico, se esistente e, in mancanza, a carico della Regione;
VI) alcuna responsabilità può essere ascritta all’Ente Idrico Campano in quanto istituito solo nel 2015 (anno successivo agli allagamenti narrati).
Chiarito il quadro dei precetti normativi applicabili, si è anche fatto notare che gli eventi di esondazione, se non si provvederà ad una seria manutenzione, con pulizia dei letti dei canali e risistemazione degli argini (vecchissimi muri di tufo), si ripresenteranno e provocheranno ancora una volta danni all’agricoltura sia a profilo immediato e diretto con la distruzione e/o incommerciabilità dei prodotti esistenti sia a profilo mediato con la perdita totale o parziale della fertilità dei fondi.
Si è così concluso chiedendo al Tribunale una pronuncia giudiziale di condanna della Regione Campania al risarcimento dei danni come specificati e quantificati o diversamente stimabili con la nomina di un consulente tecnico di ufficio. Il giudizio, iniziato nel 2016, è ancora in corso.
Abbiamo sentito dei testimoni e siamo prossimi alla decisione, che, ci si augura, sia di accoglimento delle istanze.
Purtroppo le note lungaggini dei processi colpiscono anche il Giudice delle Acque, che anzi, è, come organico, particolarmente sottodimensionato rispetto alla mole di fascicoli da esaminare. Basti pensare che in tutta Italia esistono otto Tribunali Regionali (istituiti nel 1916), divisi per distretti e corrispondenti al giudice di primo grado ed un unico Tribunale Superiore delle Acque, sito Roma presso la Corte di Cassazione, l’equivalente del giudice di appello. Giusto per capirci: il Tribunale Regionale delle Acque presso la Corte di Appello di Napoli deve pronunciarsi su tutte le cause avviate per fatti che si verificano in Campania, Calabria, Molise, Basilicata, e Puglia.
Da aggiungere che ai procedimenti si applica ancora un rito vecchissimo del 1933. E’ davvero auspicabile una riforma.
Insomma, gli strumenti giudiziari per difendersi dagli effetti catastrofici di eventi naturali, esistono, bisogna però dotarsi di buone strategie di difesa, ma soprattutto di tanta pazienza…
Il caso narrato è una delle tante ipotesi di danni provocati da eventi naturali, il cui verificarsi, i cui effetti, per essere sinceri, spesso sono distruttivi non in quanto tali, ma in quanto fortemente condizionati dall’azione (o omissione) imprudente e scriteriata dell’uomo. Se si pulisce, con costanza, il letto di un canale, questo difficilmente esonderà; se si costruisce, tombando alvei e fiumi, apparentemente aridi, con elevata probabilità, in occasioni di piogge forti, si verificheranno, per l’impossibilità delle acque di defluire secondo il loro naturale corso, frane, smottamenti di terreno et similia. Un cambio di passo non è più rinviabile.
La materia ambientale, dunque, come può intuirsi, è di un’attualità disarmante. Sempre più occorrerà – sia per bilanciare le esigenze, talvolta contrapposte, di progresso dell’uomo con il diritto ad un ambiente salubre e sicuro sia per trovare soluzioni concrete ed adeguate alle nuove problematiche – il lavoro sinergico di tante figure professionali (ingegneri, geologi, giuristi), avente un unico obiettivo: garantire l’eco-sostenibilità dello sviluppo socio-economico.