Con il termine “pietra leccese” si intende, sotto l’aspetto geologico, una roccia calcarea appartenente al gruppo delle calcareniti marnose, risalente al Miocene che si estrae da cave a cielo aperto, profonde fino a cinquanta metri e diffuse su tutto il territorio salentino.
È una roccia nota soprattutto per la sua plasmabilità e facilità di lavorazione in quanto ha una composizione piuttosto omogenea costituita principalmente da carbonato di calcio sotto forma di granuli di calcare (microfossili e frammenti di fossili) e di cemento calcitico, a cui si legano glauconite, quarzo feldspati, quarzo oltre a sostanze argillose, che, nelle diverse miscele, danno origine a differenti qualità della roccia.
L’estrazione dalle cave è semplice poiché si lascia incidere con la stessa facilità del legno mentre col tempo cresce la sua durezza e resistenza e nella consolidazione la pietra assume una tonalità di colore ambrato simile a quella del miele.
La pietra leccese deve la sua particolare modellabilità alla presenza di argilla che le permette un modellamento a mano e addirittura al tornio.
Nel corso dei secoli, ha prodotto la complessa architettura del barocco leccese con esempi significativi dati da fregi, capitelli, pinnacoli e rosoni che decorano molti dei palazzi e delle chiese di Lecce come ad esempio il palazzo dei Celestini, la chiesa di Santa Croce, la Chiesa di Santa Chiara, la Chiesa di Santa Irene e il Duomo.
Proprio la sua facilità al modellamento, però, la rende molto sensibile all’azione meccanica degli agenti atmosferici, all’umidità di risalita del terreno, alla stagnazione d’acqua e allo smog.
Per questo motivo i maestri scultori dell’epoca barocca usavano trattare la roccia con il latte immergendo i blocchi di roccia interamente nel liquido al fine di far penetrare il lattosio all’interno delle porosità, creando uno strato impermeabile che preservava la pietra fino a portarla, quasi inalterata, ai giorni nostri.
GUARDA LA FOTOGALLERY di Antonio Toscano